The Greek FreakPer arrivare all’Olimpo del basket Giannīs Antetokounmpo è partito dalle strade di Sepolia

Il giocatore dei Milwaukee Bucks, neo campione Nba, è cresciuto nel piccolo quartiere di Atene. Fino a 18 anni la Grecia non gli ha concesso la cittadinanza, ora lo reclama come suo ambasciatore nel mondo. Non è la solita storia tutta americana basata sul riscatto: nella sua vita ci sono le difficoltà che affrontano le famiglie migranti che arrivano in Europa

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Un’istantanea alla fine di gara-6 delle Finals racconta meglio di ogni giocata sul parquet cosa significa per Giannīs Ugo Antetokounmpo vincere il titolo Nba. Giannīs è seduto su una sedia delle prime file, ha il cappellino celebrativo con la scritta “Champions” e gli occhi pieni di lacrime. È stremato, tutto quello che aveva da dare lo ha lasciato sul campo e alla fine è stato ripagato per tutti i suoi sforzi.

The Greek Freak – soprannome difficile da tradurre, ma particolarmente indovinato – ha appena chiuso la partita che lo incorona campione con il suo massimo in carriera ai playoff da 50 punti, a cui aggiunge 14 rimbalzi e 5 stoppate, per una prestazione da leggenda.

E il 50 è un numero che ritorna: per i suoi Milwaukee Bucks sono anche gli anni trascorsi dal primo e ultimo titolo della storia della franchigia. Soltanto un personaggio larger than life avrebbe potuto portare città e squadra fuori dall’anonimato cestistico.

La serie finale contro i Phoenix Suns racchiude in uno spazio temporale relativamente piccolo tutto l’impegno, il sudore e la dedizione che Giannīs ha impiegato per arrivare nell’Olimpo del basket. È riuscito a elevare ancora il livello del suo gioco, nascondendo per quanto possibile i suoi difetti, raggiungendo una dimensione inarrivabile per chiunque, decorando le 6 partite con un’infinità di giocate iconiche: dalle stoppate à la LeBron James alle schiacciate in terzo tempo saltando sulla testa degli avversari.

Eppure quando è entrato in Nba non era così. Giannīs era piuttosto un blocco di argilla da modellare a piacimento grazie a un fisico probabilmente mai visto prima. E come i grandi campioni partiti da lontano, Giannīs ha dovuto aggiungere giorno dopo giorno nuovi movimenti nel suo bagaglio per diventare un giocatore totale, capace di andare oltre il concetto dei ruoli predefiniti del basket, un’arma non convenzionale sul parquet 28×15.

Insomma, c’è un motivo se viene chiamato The Greek Freak. E quell’aggettivo, greco, sembra la parola più naturale del mondo: è la sua nazionalità, ma neanche questo è sempre stato così.

I coniugi Adetokunbo, Charles e Veronica, scapparono da Lagos, Nigeria, nel 1991, cercando una vita migliore in Grecia. Ma la Grecia non gli ha riconosciuto diritto di cittadinanza per vent’anni, lasciandoli in una condizione di irregolarità che non permetteva loro neanche di registrare all’anagrafe le nascite dei figli Athanasios, Giannīs, Alexis e Kostas.

Il cognome, scritto “Adetokunbo”, è una parola di lingua yoruba. Ade significa corona, o re; Tokunbo è un bambino nato in un Paese lontano dal luogo di provenienza dei propri genitori che ritorna nel luogo d’origine: l’unione dei due termini dovrebbe indicare qualcosa di simile a “re nato all’estero che ritorna alle sue origini”. Ma la

Sebbene sia nato in Grecia, abbia un nome greco e si senta greco a tutti gli effetti, Giannīs è stato apolide fino ai 18 anni. La traslitterazione in Antetokounmpo sarebbe arrivata solo allora.

Giannīs e i suoi fratelli sono cresciuti nel quartiere di Sepolia, preoccupandosi di sopravvivere in qualche modo. In questo stato di perenne precarietà, i ragazzi Adetokunbo provavano a guadagnare qualche soldo facendo i babysitter, lavorando in cantiere come manovali, o vendendo borse, occhiali e scarpe per strada.

«Se penso al modo in cui mangiamo ora, e a quello che devi fare per prenderti cura del tuo corpo, mi rendo conto di quanto poco mangiassi da piccolo. A volte andavo a scuola, senza colazione. Anzi, non a volte, ogni volta», ha ricordato lui stesso a novembre in una puntata del podcast “The Woj Post”.

La Grecia in cui è cresciuta tutta la famiglia e che ora fa di Giannīs il suo volto nel mondo dello sport, non solo non li riconosceva, ma spesso e volentieri li respingeva, li marginalizzava, li discriminava.

Lo ha scritto il New York Times in un articolo del 2019: «L’esperienza di Antetokounmpo non è una fiaba. Il suo status di apolide gli ha loro l’assistenza sanitaria nazionale, il lavoro nel servizio civile e l’accesso ai campionati sportivi. Quando era ancora un comune mortale, era visto solo come un irregolare. In quanto figlio di immigrati era perennemente vittima di attacchi di militanti razzisti e minacce di espulsione in Nigeria, un Paese che non aveva mai nemmeno visitato».

All’epoca il basket era solo uno svago, al massimo un modo per sognare, per sperare di riscattare la storia della famiglia. Di certo non un lavoro.

La prima opportunità per mettere piede su un vero campo da pallacanestro è arrivata nel 2007. Il nome di riferimento è quello di Spiros Velliniatis, che ha intravisto del potenziale in Giannīs semplicemente vedendolo correre con i fratelli.

L’opportunità, ovviamente, andava sfruttata al massimo: «Antetokounmpo rimaneva spesso in palestra ad allenarsi fino a mezzanotte circa, dormendo su un materassino nella sala pesi per paura di tornare a casa al buio. Fascisti e neonazisti affiliati ad Alba Dorata si aggiravano per il quartiere minacciando gli immigrati», scrive il New York Times.

A 16 anni, Giannīs è arrivato a giocare nelle palestre della serie A2 greca, con la canotta del Filathlitikos, ma già faceva intuire un talento, atletico prima ancora che tecnico, misterioso. Gli scout Nba non avrebbero potuto farsi sfuggire quell’occasione: per un paio di stagioni lo hanno seguito, studiato, analizzato.

I Milwaukee Bucks ci hanno creduto più degli altri e nel 2013 lo hanno scelto al Draft. Giannīs aveva solo 18 anni. E per quella questione della cittadinanza greca: gli è stata concessa proprio mentre stava per andare a New York per il Draft, altrimenti sarebbe stato tutto più complesso a livello burocratico.

Per il ragazzino cresciuto nelle strade di Sepolia l’impatto con la realtà americana, e con la vita del cestista Nba, è stato come sbarcare su un altro pianeta. I suoi primi mesi negli Stati Uniti sono una raccolta di aneddoti che lo descrivono come un ragazzo particolarmente distante da quel mondo: una volta ha chiesto all’amico ed ex compagno di squadra Zaza Pachulia se ci fosse un modo per non pagare le tasse; un giorno si è arrabbiato con Caron Butler – altro ex compagno ai Bucks – per la leggerezza con cui buttava un paio di scarpe quasi nuove: «Che stai facendo, sono ancora buone»; e poi c’è l’ormai celebre tweet entusiasta dopo il primo smoothie della sua vita.

Nell’estate del 2015, dopo la sua seconda stagione Nba, Giannīs è tornato ad Atene. Lui e il suo vecchio allenatore, Velliniatis, si sono incontrati. «Sei diventato quello che sei diventato grazie alle tue origini», gli ha detto il coach.

La Grecia adesso non solo riconosce Giannīs, ma lo reclama, lo esalta, lo abbraccia in tutti i modi. Nel suo Paese è diventato l’idolo di tanti bambini. La sua maglietta è una delle più vendute. Ogni volta che gira in strada è assediato da persone che vogliono una foto o un autografo.

Per Atene, Giannīs, è un ambasciatore della Grecia nel mondo. Ma lui sa quanto è stato difficile arrivare dov’è oggi. Quando si è seduto, in lacrime, al termine di gara-6, deve aver rivisto il ragazzino di Sepolia che andava a scuola affamato e dormiva in palestra dopo gli allenamenti. Sa perfettamente che la sua storia non è la solita storia americana di riscatto e successo. È una storia che racconta la sofferenza, la fatica e i problemi burocratici delle famiglie migranti che arrivano in Europa, che provano a costruire la propria vita dovendo abbandonare la terra d’origine.

Oggi Giannīs Antetokounmpo raccoglie i frutti del suo lavoro e suoi sforzi. È campione Nba, due volte Mvp della stagione regolare, Mvp delle Finals. È uno dei giocatori destinati a segnare una generazione. È sull’Olimpo del basket. E non potrebbe essere più meritato di così.

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