Il giorno in cui arrestarono Mario Chiesa, 17 febbraio 1992, dovevo ancora compiere quattordici anni. Il giorno delle monetine tirate contro Bettino Craxi davanti al Raphaël, 30 aprile 1993, ne avevo da poco compiuti quindici.
Insomma, per quanto riguarda la stagione che a un certo punto si decise di chiamare Tangentopoli, ho un alibi: ero nel pieno dell’adolescenza. Ero cioè in quella fase della vita in cui si è naturalmente portati a credere che la giustizia consista nel punire i cattivi sbattendoli in carcere senza tante perdite di tempo e lo scandalo sia che talvolta, prima del processo, li facciano uscire, non che li mettano dentro.
Ero dunque perfettamente in armonia con il sentimento e il modo di pensare dell’opinione pubblica e dei principali giornali del paese. La differenza è che io poi sono cresciuto.
In Italia, invece, molto poco è cambiato, in questi ultimi trent’anni, parecchio è anzi peggiorato. In compenso, oggi dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri la riforma della giustizia, terreno su cui, sin da allora, nessun governo democratico è riuscito a intervenire in modo politicamente significativo, nonostante – ma forse non è la preposizione giusta – sotto i colpi di inchieste assai spesso finite nel nulla, da Why not a Tempa Rossa, siano caduti governi e ministri di ogni colore, estrazione e provenienza.
Il più grande inganno mai riuscito al demone del berlusconismo, infatti, è stato convincere gli italiani che i magistrati stessero dalla parte della sinistra, mentre era vero semmai l’inverso, che non è affatto la stessa cosa. I magistrati stanno coi magistrati. Non era e non è mai stata, al fondo, una questione politica – intesa come politica di partito o di schieramento – è sempre stata una questione di potere.
Se dopo trent’anni di questo andazzo non ve ne siete ancora convinti da soli, dubito di potervi convincere io. Ma la conseguenza ultima di questa situazione per la società italiana nel suo complesso, vale a dire per i diritti di ognuno di noi, si può cogliere leggendo il bel libro di Chiara Lalli e Cecilia Sala dedicato al caso Marta Russo (“Polvere”, Mondadori), o ascoltando il podcast dell’Huffington post da cui è tratto (sì, ne ho già parlato qui, lo rifaccio perché non ho nessuna fiducia nella mia capacità di convincere il lettore a darmi retta su alcunché, figurarsi su una cosa così faticosa come leggere un libro, e perché mi risparmia la fatica di argomentare una tesi che lì è già perfettamente dimostrata).
Se dovessi sintetizzare la questione in tre righe, direi che da trent’anni in qua la giustizia italiana è molto sbilanciata sul lato dell’accusa, che l’accusa e la giustizia nel suo insieme lo sono sull’uso della carcerazione (non solo preventiva) e che le carceri sono spesso quella cosa che potete vedere in questi giorni nei video sui pestaggi di Santa Maria Capua Vetere.
Di conseguenza, dire che il governo Draghi è costretto a occuparsene dai vincoli del Recovery fund – perché tempi, imprevedibilità e opacità della nostra giustizia rappresentano un problema economico – significa, certamente, dire la verità; ma significa anche utilizzare un eufemismo talmente estremo da rasentare l’ironia involontaria: un po’ come dire che occorre spegnere l’incendio dentro un appartamento perché chi ci abita sente caldo.
È chiaro che il governo Draghi è un governo di emergenza, che ha dovuto concentrarsi immediatamente sulle priorità, vaccinazione e Piano nazionale di ripresa e resilienza (cioè i fondi europei), raddrizzando la rotta in corsa senza nemmeno darlo a vedere troppo, perché ha dovuto farlo con buona parte della stessa maggioranza che sosteneva il governo Conte.
Molto si può quindi scusare e giustificare, ma non tutto. Il grandissimo casino fatto su Astrazeneca, e di cui ancora in questi giorni non si vede la fine, ad esempio, no. Quanto poi anche questo dipenda direttamente da Mario Draghi o dal generale Figliuolo e quanto dal ministro della Sanità e dal Comitato tecnico-scientifico (sia pure ridisegnato) che Draghi si è dovuto o voluto tenere, ormai, non ha nessuna importanza. La responsabilità è sua. E questo vale anche per il principale tratto di continuità con l’esecutivo precedente, che sta nell’aver scommesso tutto sui vaccini senza preoccuparsi troppo di tracciamento, prevenzione e sorveglianza. Augurandoci che l’evoluzione delle varianti non ci riporti ancora una volta alla casella di partenza.
Certo è che sia sulle riforme legate al Pnrr, a cominciare dalla giustizia, sia sulla lotta al Covid, il pericolo maggiore per il governo non sta nell’eventuale strappo con i grillini o con gli altri nostalgici del contismo, quanto nell’inerzia, chiamiamola così, che lo spinge su strade già percorse dal suo non rimpianto predecessore.