Da tempo politici e intellettuali che hanno passato la scorsa legislatura facendo la guerra a Matteo Renzi, in nome del principio secondo cui i valori della sinistra contano più dei voti e della popolarità – perché vincere non è tutto, diamine! – ripetono che Giuseppe Conte sarebbe un perfetto leader dei progressisti. E sapete perché? Perché è il più popolare nei sondaggi (o almeno lo era).
A loro modo di vedere, l’avere governato con Matteo Salvini e Luigi Di Maio, sottoscrivendo decreti sicurezza, abolizione della prescrizione e tutto il resto, sarebbe un difetto su cui si può e anzi si deve sorvolare, perché è ora di finirla con questa fissazione di fare gli esami del sangue al prossimo, perché la guerra si fa con i soldati che si hanno e perché in politica, se davvero vuoi affermare i valori per cui ti batti, non basta partecipare: bisogna vincere, diamine! Anche in questo perfettamente speculari ai primi ferventi sostenitori del rottamatore (in qualche caso, del resto, si tratta pure delle stesse persone).
Vedremo quanto la tesi della saggia e lungimirante capacità di governare il paese in piena pandemia da parte dell’Avvocato del popolo reggerà al passare del tempo, al procedere e al moltiplicarsi delle inchieste, giornalistiche e giudiziarie, al venir meno di quella bolla comunicativa in cui è stato a lungo allevato e coccolato.
Per quanto riguarda le sue doti di leader politico, però, c’è poco da aspettare: dalla scelta di andare allo scontro frontale con Renzi confidando in Lello Ciampolillo fino alla noiosissima telenovela della riscrittura dello statuto grillino, con il varo del suo «neo-movimento» continuamente annunciato e continuamente rinviato, appare arduo definirlo un gigante della strategia. Per non parlare della tattica, terreno su cui fin qui le ha prese da tutti: da Renzi, da Grillo e persino da Luigi Di Maio. A essere pignoli, il ministro degli Esteri, che poi sarebbe il suo rivale più prossimo, gli ha dato lezioni di politica già due volte: prima con l’uscita autocritica sulla gogna mediatica (che ha costretto Conte ad accodarsi prima e a tentare di distinguersi subito dopo), e poi inchiodandolo a una trattativa con Grillo da cui ha tutto da perdere.
Non per niente le ultime vicende interne al Movimento 5 stelle, e il modo non brillantissimo in cui Conte ha tentato di risolverle, senza riuscirci e restando anzi invischiato in una ragnatela di trattative e mediazioni concentriche – un classico del suo modus operandi sia come capo di governo sia come (aspirante) capo partito – cominciano a suscitare anche tra gli osservatori meno ostili un certo grado di scetticismo.
Il Corriere della sera scriveva ieri che per l’intesa si parla di almeno dieci giorni, forse due settimane. E riportava anche l’angoscioso interrogativo che serpeggerebbe tra i cinquestelle più vicini a Conte: «E se ci stessero fregando?». Considerato che il lancio del nuovo grande soggetto politico contiano avrebbe dovuto tenersi a maggio, e ora, ammesso e non concesso che veda mai la luce, rischia di nascere a ferragosto, l’interrogativo appare decisamente retorico.