Privilegi garantitiL’italiano non ha paura dell’immigrato, quanto di perdere il diritto di lavorare poco

A impedire una gestione integrativa e utile dell’immigrazione non c’è solo il populismo dei porti chiusi e dei barconi illegali, ma anche un filtro che concepisce chi arriva come nuovo cliente del welfare e come possibile soggetto da tutelare, e quindi come una minaccia

(AP Photo/Salvatore Cavalli)

Magari si trattasse solo di contrastare le politiche dei porti chiusi e dei barconi da affondare: perché a impedire una gestione integrativa e utilitaria dell’immigrazione non c’è solo il proclama sulla difesa dei sacri confini di patria o l’impostazione criptorazzista del “prima gli italiani”. C’è anche, e non meno pericolosamente, il filtro dell’inclusione dirittista che concepisce l’immigrato quale nuovo cliente del welfare parassitario e per il quale la regolarizzazione coincide con il puro inquadramento sindacale.

A far grama la vita di chi riesce ad arrivar qui, e a rendere impossibile l’integrazione dei molti altri che potrebbero arrivarci, è meno il vagheggiamento sovranista che la ferma realtà di un sistema dell’economia e del lavoro archeologicamente impiantato nella retorica operaista che – pour cause – ha garantito agli operai italiani gli stipendi più bassi d’Europa.

A tener fiorente la piantagione schiavista del meridione d’Italia non è solo la cultura senza coming out cui il nero va bene finché sta incurvo a raccogliere pomodori: è anche, e direi prima, quella leggiadra e democraticamente ineccepibile che gli promette tanti bei diritti salvo quello che altrove è pressoché immediato, e cioè di inserirsi in un giro di concorrenza in cui il lavoro si trova e non rimane sulla carta perché non c’è tanta carta da compilare per trovarlo.

Pressappoco, per quest’altra cultura si tratta d’esser buoni con gli ambulanti che organizzano il suk express sulla spiaggia, non di consentire che siano assunti da un datore di lavoro liberato dall’inferno di adempimenti e dal giogo fiscale che infatti elude appena può.

L’altro profilo della retorica dirittista – anche più ipocrita perché affetta sensibilità umanitarie, e anche più pervasivo perché occhieggia a destra e a manca – reclama che l’immigrazione non alimenti riserve d’umanità derelitta da sfruttare. Ma quattro numeri sulla produzione italiana, sulle pensioni italiane, sul postificio costituito dalla pubblica amministrazione italiana, spiegano molto bene che quell’argomento non è rivolto a intestare nuovi diritti agli immigrati ma a perpetuare quelli dei garantiti: perché il privilegio dell’imboscato nel ministero regge finché l’immigrato pulisce il parabrezza all’incrocio o prende il sussidio, vale a dire finché sta nell’illegalità o condivide il medesimo sistema improduttivo-parassitario.

Non c’è solo la reazione xenofoba all’immigrazione che ruba il lavoro agli italiani. C’è anche quella, inconfessata quanto efficiente, al pericolo che gli immigrati tolgano a tanti italiani il diritto acquisito di lavorare poco.

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