Malgrado l’esito dello scontro in Consiglio dei ministri sul ddl Cartabia segni una netta sconfitta del Movimento 5 stelle, destinata ad aggravarne le divisioni, la parziale rottamazione della riforma Bonafede è un’ottima notizia per la politica, ma non altrettanto per la giustizia italiana.
Questa considerazione vale sia per la questione simbolo della prescrizione, sia (e soprattutto) più in generale, rispetto all’idea della giustizia penale e dei relativi limiti che continua a dominare la discussione parlamentare e che ha portato a stralciare alcune delle proposte della commissione presieduta da Giorgio Lattanzi, ad esempio quella sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione, e a circoscrivere prudentemente le ambizioni riformatrici dell’esecutivo. Qualunque intervento, anche quello apparentemente più tecnico e neutrale, deve infatti rispettare totem e tabù, idoli e divieti sacri della religione giudiziaria di Stato, che assegna alla pretesa punitiva verso i presunti colpevoli non solo una prevalenza giuridica, ma una funzione simbolica di risarcimento e soddisfazione del popolo e riserva alla classe sacerdotale dei giudici (senza distinzione tra accusatori e giudicanti) una vera e propria funzione liturgica, non di amministrazione della giustizia, ma di intermediazione della salvezza.
La proposta suggellata dall’accordo in Consiglio dei ministri sulla prescrizione infrange il principio del fine processo mai, ma conserva quello del fine reato mai, e in ogni caso, concretamente, allunga il tempo nel quale un innocente può rimanere appeso a un processo oltre gli stessi termini previsti dalla legge Orlando, che Bonafede aveva scempiato. In più nella legge Orlando il prolungamento dei termini per secondo grado e Cassazione era previsto unicamente per i condannati in primo grado, non anche per gli assolti, come imposto dalla legge Bonafede e accettato anche dal ddl Cartabia. Ovviamente, di questa mediazione al ribasso non può farsi colpa al ministro o al presidente del Consiglio, i cui limiti d’azione sono rappresentati non solo dagli interessi propagandistici dei partiti della maggioranza, ma da un mainstream politico-giudiziario che rimane, anche nella pubblicistica meno manettara, ancorato alle retoriche e alle obbedienze manipulitiste e che agisce da causa di esclusione e di giustificazione di tutto quello che in materia di giustizia possa considerarsi davvero ammissibile, cioè popolare.
E qui si torna al dato generale, quello dell’idea della giustizia penale come forma sensibile del rapporto tra cittadino e Stato e tra potere e libertà, che a destra come a sinistra, per ragioni e per nemici diversi, è stata subordinata a canoni inquisitoriali. Per uscire da una giustizia e da una galera da Inquisizione bisogna uscire da un’idea inquisitoriale della giustizia, dei delitti e delle pene. Facile a dirsi, non certo a farsi, perché come si vede non basta un presidente del Consiglio o un ministro illuminati per rischiarare la notte buia del diritto e dei diritti, in cui l’Italia da decenni si trascina.
Sulla giustizia, più che su qualunque altro tema, per vincere la battaglia delle leggi occorre riprendere una battaglia culturale, perché prima delle norme, vengono le idee e dalle idee cattive solo norme cattive (sul buono o cattivo, naturalmente, de gustibus). Da questo punto di vista proprio sulla giustizia si sconta l’assenza di un partito o di uno schieramento politico dai numeri abbastanza larghi e dalle idee abbastanza chiare per rappresentare un vero interlocutore, cioè un vero problema politico, per tutti. Assenza tanto più bruciante, mentre il Partito democratico accoglie entusiasticamente nelle proprie fila Leoluca Orlando, il mammasantissima del giustizialismo universale, il maestro del sospetto elevato ad anticamera della verità, presumendo, forse pure a ragione, di ottenere dall’operazione un saldo positivo di consensi.
Per paradosso lo scontro oggi più propizio in tema di giustizia non passa dalle iniziative dell’esecutivo, ma da un mazzo di referendum radicali imbracciati trasformisticamente dalla Lega e da Salvini, uno dei tanti mozzaorecchie che ha riscoperto il garantismo da indagato e imputato, e che oscilla agilmente tra cappi e garanzie, tra un’idea orbaniana e una pannelliana della giustizia, tra la rivolta al controllo popolar-giudiziario della politica e la speranza di un controllo politico-popolare della giustizia.
Insomma, viva Cartabia, viva Draghi, ma non è il momento del facile ottimismo. Fofò Dj ha perso, ma l’egemonia culturale giustizialista è sempre lì.