Quando uscì il più bel film di questo secolo, “The Social Network”, Aaron Sorkin, che l’aveva scritto, aveva 49 anni, l’età che ho io ora. Il discorso sul mio essere in ritardo per scrivere anche solo il più bel qualcosa del mese lo facciamo un’altra volta, adesso voglio parlare di uno degli articoli che vennero pubblicati per l’uscita del film.
A Esquire pensarono bene, invece di intervistare attori come fanno di solito le riviste patinate, di dare allo sceneggiatore la loro paginetta “What I’ve learned”, “Quel che ho imparato”. Sorkin la riempì di svariati errori di saggezza, uno dei quali vi tradurrò.
«Lungo la via per l’invecchiamento, ci sono questi cartelli stradali. Il primo è quando la Playmate del mese è più giovane di te. Improvvisamente ti senti uno zozzone perché hai ventitré anni, e lei ne ha diciannove, e non dovresti fissare quella foto. Il segnale successivo è che gli atleti professionisti sono più giovani di te. Poi gli allenatori sono più giovani di te. E infine, l’ultima cosa che accade: ho l’età del presidente degli Stati Uniti».
A 24 anni ebbi un flirt con un tizio che ne aveva 19. Ho ancora un quadretto che mi regalò un’amica per irridermi: una copertina d’epoca con scritto «Come ti svezzo il pupo». Lo chiamavano tutte «il pupo» (tranne una che lo chiamava «il bocconcino»).
Ero una donna, avevo un lavoro, e lui era uno che viveva coi genitori e stava decidendo a che università iscriversi: non mi vergognavo? Eravamo, le mie amiche e io, tutte convinte che fosse un divario anagrafico inaccettabile, che fosse esaurimento nervoso, che mi sarei ripresa da quella fase di pedofilia.
Non lo vedo da tantissimo tempo e non mi torna in mente spesso, ma quando ne ho compiuti 45 ho pensato per tutto il giorno: il pupo ha quarant’anni.
Credo fosse Gesualdo Bufalino che diceva che lui e Sciascia erano legati da quell’amicizia che può esistere solo tra coetanei. Da giovane mi sembrava una cosa insensata, adesso mi sembra un’ovvietà, però non so cosa voglia dire «coetanei»: io e il pupo, che non eravamo coetanei negli anni Novanta, lo siamo ora.
Elisabetta Franchi, che ufficialmente ha quattro anni più di me, l’altro giorno su Instagram ha rievocato le abbronzature degli anni Ottanta con la parola in codice che tutte noi ragazze che andavamo sulla riviera romagnola in quegli anni capiamo: Lancaster. Se non ti sei mai spalmata di quella crema marrone senza filtri protettivi che ti faceva sembrare meno bianchiccia e moltiplicava i danni dei raggi di sole, non sei mia coetanea.
C’è un momento nella vita in cui il tempo si contrae, e non lo dico solo per piazzare qui la mia citazione preferita, quella pagina della “Vedova incinta” in cui Martin Amis racconta la fine del presente: «Con l’approssimarsi del cinquantesimo compleanno, cominci a sentire che la tua vita si diluisce, e continuerà a diluirsi fino a ridursi in niente. E ogni tanto ti dici: È andata un po’ in fretta. È andata un po’ in fretta. A seconda dell’umore, potresti anche volerla mettere in termini più decisi. Del tipo: EHI!! È andata un po’ TANTO IN FRETTA CAZZO!!!… Poi i cinquanta arrivano e se ne vanno, e i cinquantuno, e i cinquantadue. E la vita si addensa di nuovo. Perché in te adesso c’è un’enorme e insospettata presenza, come un continente inesplorato. Parlo del passato».
Quello viene dopo. Ci vorrebbe un Martin Amis, e invece qui ci sono solo io, per spiegare quell’altra contrazione del tempo, quella per cui quei cinque anni di differenza che sono un’enormità quando hai dieci o vent’anni a un certo punto diventano un niente.
Non conoscevo Libero De Rienzo. Ero l’unica, ho scoperto quando l’altro giorno è morto. Ci sono, tra le persone che conosco, molti che gli volevano bene. Io invece non so neanche se ho mai visto un suo film, credo di non aver visto neanche quello che sembra essere il preferito d’un po’ tutti, il film di formazione della nostra generazione.
Mi sono chiesta come fosse possibile, e sono giunta alla conclusione che c’entri quel divario che a un certo punto scompare. Quando uscì “Santa Maradona”, avevo compiuto 29 anni da una settimana, avevo già cambiato tre tipologie di lavori, e un film sulla perpetua immaturità non parlava a me. Era quando cinque anni facevano ancora la differenza: De Rienzo era coetaneo del pupo.
Finché non mi è cascato lo sguardo sulla sua data di nascita, devo fare una confessione orrenda: ero sollevata. Sollevata di non conoscerlo, di non dover vivere quello strazio che è la morte di qualcuno con cui hai mangiato o chiacchierato o litigato, quello strazio che ogni volta mi sembra assurdo.
Com’è possibile che ci muoiano gli amici, siamo la generazione coi genitori immortali epperò muore gente che ha usato le nostre stesse creme solari? Ma poi: quale generazione, è proprio che non muoiono più quelli che sarebbe naturale e sano morissero, muoiono solo quelli che ti fan dire stronzate sul loro essere cari agli dèi.
Pochi giorni prima di De Rienzo è morta la madre di Catherine Deneuve: aveva 109 anni. I padri dei figli della Deneuve, Roger Vadim e Marcello Mastroianni, erano morti da decenni, e sua madre era ancora viva.
Poi ho notato la data di nascita di De Rienzo. Aveva cinque anni meno di me. Chissà che cartello stradale è mai questo, questo che indica la morte di gente più giovane di te che neanche sai quando di preciso fosse diventata tua coetanea, dev’essere un cartello invisibile perché sembra proprio succeda senza avvisare, facendoti inchiodare all’incrocio e restare lì come una stronza, a dirti per trenta secondi che devi assolutamente fare qualcosa di rilevante giacché potresti morire domani, e per i trenta successivi che è inutile sbattersi, tanto lo vedi che ingiustizia, si muore.
È andata un po’ tanto in fretta, cazzo.