La mia stima dei medici è nota a tutti quelli che mi conoscono e, scrivendone io spesso in pubblico, anche a taluni lettori che sanno di me più di quel che vorrebbero.
È nata, essa stima, in una famiglia in cui erano praticamente tutti medici; sebbene l’unico medico in famiglia da cui abbia ricevuto diagnosi sbagliate e cure sbagliatissime fosse mio padre, sono ragionevolmente certa che la sua canitudine non fosse un’eccezione.
Cani erano i primari suoi amici, con quattro dei quali ci trovavamo in vacanza in quell’inverno degli anni Ottanta in cui mi fu diagnosticata la malaria e venni imbottita di chinino per settimane (cinque medici, e non uno cui venisse in mente che un’ottenne potesse avere la varicella).
Cane era il primario che, quando diedi una facciata contro il muro, disse che, non fosse intervenuto, avrei avuto tutta la vita il naso storto, e procedette a operarmi, e non respirai mai più.
Cani sono stati tutti i medici dell’età adulta, dei quali ci piace ricordare il ginecologo che, dopo avermi operata d’endometriosi, mi lasciò l’ombelico mezzo aperto; ma anche il primario (più son cani più son primari) padre di conoscente che, messo telefonicamente al corrente del fatto che mi uscivano liquidi dall’ombelico (era agosto, il mio dottore era andato in vacanza), mi disse che non c’era bisogno di visitarmi: ero pazza, non era possibile.
È quindi con malinconico divertimento che ho assistito allo spettacolo d’arte varia d’un anno e mezzo in cui s’è deciso che i medici fossero tutti giganti del pensiero e dell’azione, e se obiettavi eri una picchiatella dell’internet.
È quindi con composta rassegnazione che, quando è uscita la lista delle patologie che ti rendevano vaccinabile prima del tempo, ho chiesto alla dottoressa della mutua – una che mi ha come paziente da tredici anni, e ogni volta mi chiede se è la prima visita – come fare a prenotarmi visto che il sito non permetteva di dire che patologia avessi e lei non mi aveva mai certificato niente.
«Non mi risulta che l’endometriosi sia patologia tale da farla classificare come fragile», «È nella lista sul sito del ministero», «Verifico e se mi sbaglio glielo faccio sapere».
Mai più sentita.
Seguono telefonate al numero per le prenotazioni, dove un disco che dice che quelli sono i centralini di «L’Italia rinasce con un fiore», e ti richiamano loro. E richiamano, dicendoti «ma noi cosa c’entriamo, siamo poste italiane», volendo sapere da te se sei prenotabile o no, non chiedendoti che patologia tu abbia. E poi richiamano di nuovo sei ore dopo, pronti a prenotarti, «ma io mi sono già prenotata prima» «ah».
A quel punto, essendomela io presa comoda, molti miei amici sono già prenotati se non addirittura mezzi vaccinati, e tutti magnificano l’efficienza del meccanismo in post su Instagram in confronto ai quali gli influencer che vendono barrette dietetiche sono il reale e il razionale.
Gli entusiasti, capisco presto, si dividono in tifosi del governo in carica il sottotesto del cui entusiasmo è: mica come quei cialtroni di prima; e in italiani abituati così male che l’idea d’un posto organizzato per far punture in cui riescano a farti una puntura li fa sdilinquire di meraviglia.
Viene il giorno della prima dose, e già viene smentito il «tutto velocissimo» giuratomi dai miei amici. Dopo un quarto d’ora d’attesa senza che i numeri dell’accettazione avanzino, mi rendo conto che le signore che dovrebbero registrare i dati sono tutte attorno a una giapponese. Mi avvicino, e le stanno dicendo in un inglese che Matteo Renzi in confronto è la Thatcher che, se si fa il vaccino oggi, la seconda dose gliela fanno a metà luglio; ma se invece vuole farle più ravvicinate deve spostare la prima: from the first of July maybe we do 21 days. La giapponese parla inglese assai peggio di loro, quindi la cosa va per le lunghe.
Quando arrivo davanti al medico che dovrebbe farmi l’anamnesi, quello mi chiede le allergie. Dico che da piccola sono stata male con la Novalgina, non dico che quel cane di mio padre probabilmente aveva sbagliato dosaggio, dico che d’altra parte ignoro quale sia il principio attivo della Novalgina e quindi potrei averlo assunto altre centinaia di volte senza saperlo.
«Qual è il principio attivo della Novalgina?». Mi guarda come gli avessi chiesto di recitarmi il Macbeth in lingua originale, come gli avessi detto che sua madre non è davvero sua madre, come io devo aver guardato il prof di storia all’orale della maturità (in storia feci scena muta: ne sapevo di Napoleone persino meno di quanto questo tizio in camice sappia della Novalgina).
Cinque settimane dopo, vado verso la mia seconda dose di Pfizer, e mi chiedo cosa mi aspetti: un altro medico che guarda una domanda facile come i vostri figli guardano gli invalsi?
Invece non incrocio particolari latrati canini; in compenso ne esco convinta che mi stia venendo un infarto. Un’amica ha fatto il vaccino alla mia stessa ora, e anche lei si sente tutti i sintomi, ma sono certa dipenda dal suo essere della categoria «Sapessi io»: quelle che, ti abbiano licenziato o mollato o trovato un qualche malanno, hanno sempre pronta una disgrazia analoga ma vagamente più grave con cui arrubbarti la scena.
Sono determinata a essere l’unica che ne morirà, e quindi mi lamento più forte e redigo molti testamenti. In serata faccio telefonate melodrammatiche promettendo di lasciare nelle mie ultime volontà le prime copie di Arbasino ad almeno otto persone diverse.
Poi niente, la mattina dopo mi sveglio e ho solo un po’ di male al braccio. Alla prima dose avevo chiesto all’infermiere che mi aveva sforacchiato come mai, mica di solito le punture lasciano un dolore dove son state fatte.
Lui aveva sostenuto fosse perché ti iniettano una cosa che agisce: è la sua azione che ti dà l’indolenzimento. Avevo passato la serata a immaginarmi che nell’ago ci fosse un omino miniaturizzato, come Dennis Quaid in quel film in cui lo iniettano dentro Martin Short.
Stavolta no, stavolta sono convintissima di stare per morire, anche adesso che sto scrivendo e sono passate ventiquattr’ore dalla seconda dose.
Se questo fosse il mio ultimo articolo, ci tengo a dirvi che l’edizione Feltrinelli di Supereliogabalo volevo proprio lasciarla a voi, ma è arrivato prima quell’altro. Non ha neanche provato a rianimarmi, ed è fuggito con lo scaffale Arbasino. Era, inutile precisarlo, un medico che avevo insolentito.