Premetto di non aver mai amato il termine “mercato” applicato al lavoro. Vediamo però di capire cosa intendiamo esattamente quando utilizziamo questa espressione, e per farlo serviamoci ancora una volta di dati e statistiche.
Nel 2014, cioè prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, su 100 persone che avevano trovato un’occupazione, 85 non erano tutelate dall’articolo 18 (e non disponevano di tanti altri diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori). Un chiaro segno del fatto che spesso, anzi quasi sempre, i totem e i tabù delle ideologie non parlano della realtà effettiva e di quello che interessa davvero ai lavoratori, i più giovani in particolare.
È lo stesso concetto di impiego “subordinato” a essere stato messo in discussione. Nemmeno le “nuove categorie giuridiche” in cui vengono incasellati i nuovi lavori funzionano a dovere. I diritti previsti nello Statuto sono certamente importanti, è fuori questione. Ma qui si scontrano due visioni opposte, tutte e due fortemente ideologiche: da un lato c’è chi, mentendo, dice che riducendone la portata si fa crescere il Paese; dall’altro chi alla loro conservazione – senza se e senza ma – riconduce la soluzione di ogni problema di tutela.
La verità è che i 600mila posti di lavoro persi durante la crisi economica del 2008 e i 900mila persi per la crisi innescata dalla pandemia erano tutti tutelati dall’articolo 18, e ciò non ha fatto la differenza.
Per restare ai fatti più recenti, il bilancio dell’introduzione del blocco dei licenziamenti insieme alla cassa integrazione Covid, un tempo sarebbe stato invalicabile. Oggi non solo ha lasciato a terra 900mila donne, giovani, contratti di lavoro non standard, lavoro autonomo. Il lavoro è cambiato e le tutele in campo non altrettanto. Anche in questi casi il dibattito politico e mediatico è stato, ed è ancora, fortemente connotato da una polarizzazione tutta ideologica, frutto dell’emotività e dello spirito campanilistico, che produce uno scollamento tra il merito dei problemi sul tavolo e la loro percezione da parte dell’opinione pubblica.
Bisogna infatti tenere conto della “polarizzazione” degli occupati e del fatto che il numero dei lavoratori a basso salario aumenterà notevolmente nei prossimi anni. Il compito di un sindacato che si dichiara difensore di questi soggetti è ben chiaro: fare in modo che la maggior parte della retribuzione resti nelle tasche dei lavoratori e non scompaia invece nel cosiddetto “cuneo fiscale” (ovvero la differenza tra il costo del lavoro per il datore e la retribuzione netta percepita dal dipendente; in pratica è costituita dai contributi previdenziali e dalle tasse sul lavoro).
In altri Paesi europei a noi vicini – a partire dalla Francia, per esempio, ma è così anche nella meno sviluppata Ungheria – questa differenza è stata ridotta fino al 50%, portando a un aumento delle retribuzioni nette e a una contestuale diminuzione del costo del lavoro.
Uno stimolo deciso per l’incremento dell’occupazione
Occorre, inoltre, puntare su politiche più efficaci mirate a far diminuire il numero dei disoccupati. La riforma dei centri per l’impiego elaborata dal governo Conte rispondeva a un problema di modernizzazione ed efficacia molto serio.
Tuttavia, mi sembra che gli strumenti messi in campo – a partire dai “Navigator” – abbiano tradito le buone intenzioni di partenza. Sono necessari interventi mirati per superare la situazione attuale, che vede un giovane senza lavoro costretto a orientarsi da solo (quindi perdersi) nei meandri della Rete e delle riviste specializzate, senza che le amministrazioni, in contatto con le aziende, forniscano un servizio unico e integrato, disponibile anche online. In Germania, paese con dati sul lavoro più confortanti, 7 disoccupati su 10 sono seguiti da chi si occupa di politiche del lavoro; in Italia 1 su 10.
Gli investimenti sulle “politiche del lavoro” in Italia sono in generale inferiori di un terzo rispetto al resto d’Europa. Un dato inversamente proporzionale al numero di disoccupati: nel nostro Paese, certifica Eurostat, si investe solo lo 0,5% del Pil in politiche attive, mentre in Danimarca il dato si attesta al 2%.
Sono convinto che sia necessario puntare su azioni concrete, senza che le “cavie” della transizione siano, ancora una volta, le fasce più esposte e fragili della società. Il Pnrr stanzia 4,4 miliardi, ma occorre risolvere il nodo della governance: serve un coordinamento più efficace di queste politiche, che sono di competenza delle Regioni, in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione. Una governance che si è rivelata poco efficace, ma che il corpo elettorale ha scelto di preservare bocciando a maggioranza il referendum del 2016.
La vera sfida del XXI secolo sarà quella dell’inclusione per i giovani, e anche per chi giovane non è più, ma ha l’esigenza di riqualificarsi e di reinserirsi in un percorso di formazione.
Ad esempio, un sindacato moderno, aggiornato, che fa ricerca, deve saper cogliere in anticipo l’evoluzione della figura del lavoratore: la tuta blu di oggi non è più il pezzo di una catena di montaggio, ma è un operaio-informatico a cui, lo abbiamo visto, saranno richieste sempre più approfondite competenze in tecnologia e Intelligenza artificiale.
Appare quindi evidente che l’azione sindacale non deve tentare di impedire o ignorare lo sviluppo tecnologico; è fondamentale piuttosto investire massicciamente in politiche attive che formino in modo efficace le future generazioni, attribuendo maggiore importanza alle soft skill. La parola chiave deve essere “adattabilità”, concetto spesso confuso con quello di “precarietà” o di scarsa specificità professionale. È vero il contrario: la filiera stessa delle competenze si amplia e deve sapersi evolvere alla stessa velocità con cui si sviluppano le tecnologie.
Oggi, invece, ci sono ancora due velocità diverse: l’innovazione tecnologica ha ingranato la quarta, mentre la formazione professionale procede a malapena in seconda. Il sindacato non deve essere esso stesso un fattore di rallentamento, vittima di un dibattito di stampo radical chic sulle tecnologie che “scippano” il posto di lavoro agli operai.
Non si può fermare l’acqua che scorre con le mani, insomma, né possiamo permetterci di perdere tempo prezioso in inutili e dannose discussioni che poco hanno a che vedere con la vita vera e le esigenze di chi lavora.
Occorre decidere, innanzitutto di fronte a se stessi, se si vuole stare dentro o fuori dalla realtà. Il rischio è di lasciare indietro qualcuno: il più debole.
da “Il lavoro che ci salverà. Cura, innovazione e riscatto: una visione prospettica”, di Marco Bentivogli, Edizioni San Paolo, 2021, pagine 256, euro 20, in libreria dal 26 luglio