La Francia è un Paese nel quale circa la metà della popolazione è o esitante o contraria a vaccinarsi contro Covid-19. Preoccupato, Macron ha introdotto un incentivo, non un obbligo a vaccinarsi, limitando alcune attività a chi abbia il cosiddetto “Green Pass” (una norma che sarà complicato far rispettare, ma questo si vedrà).
Il parallelo con le cinture di sicurezza o gli occhiali per chi ha problemi di vista e guida non regge. Per fortuna, il “Green Pass” non è un distintivo che si appunta sul petto e che dev’essere controllato dalle forze dell’ordine, pena una multa se si fa una passeggiata nel parco o ci si reca, invitati, a cena a casa di amici.
L’Italia è in condizioni molto diverse. La percentuale di persone pregiudizialmente ostili alla vaccinazione è sicuramente meno di un terzo (come ha riconosciuto, rara avis, Massimiliano Bucchi sul Corriere), e la vaccinazione sta procedendo a buon ritmo. Abbiamo, in questo momento, più persone che desiderano vaccinarsi che dosi di vaccino.
È curioso che il dibattito prescinda totalmente da questi dati di fatto. La discussione che è divampata sul “Green Pass” (e che ruota attorno al come e dove esigerlo, se solo per i concerti o anche per i ristoranti al chiuso, eccetera) è fortemente influenzata dall’aumento dei contagi, anche in questo caso senza considerare che, almeno per ora, la promessa dei vaccini sembra reggere.
Dal punto di vista dell’individuo, il vaccino conferisce immunità dal virus: si tratta di una condizione che ha minimi elementi di incertezza, dato che non siamo tutti uguali e qualcuno di noi, caso raro, purtroppo tenderà ad ammalarsi anche se vaccinato. Con più probabilità se vaccinato parzialmente. Ma non si ammalerà gravemente nemmeno se contrae la perfida variante Delta. Dal punto di vista della società, i vaccini promettono di rendere la pandemia più gestibile, riducendo la pressione sugli ospedali e gli esiti letali dell’infezione. In un futuro più lontano, se saremo fortunati e raggiungeremo l’immunità collettiva, e se questa copertura sarà ottenuta da un numero sufficiente di Paesi, Covid-19 si potrà davvero trasformare in una banale influenza per tutti.
Le pagine di cronaca danno l’impressione che le promesse non siano solo miraggi, almeno per noi abitanti del mondo libero e prospero, le pagine dei commenti invece no. Nella discussione si tende sempre a parlare come se Covid-19 fosse la peste polmonare o il vaiolo, cioè una malattia non solo facilmente trasmissibile ma anche letale per una buona parte della popolazione infetta, quando non è così. Anzitutto, la popolazione suscettibile non coincide mai con la totalità della popolazione: come per qualsiasi altra malattia, diversi individui svilupperanno forme di malattia diversa, chi più chi meno contagiosa, e con un diverso grado di inibizione delle attività quotidiane.
Viviamo nel mondo di Darwin, non in un grande esperimento controllato a quantità e variabili predeterminate. Talvolta scienziati anche molto competenti si lasciano prendere dalla foga e ragionano come se le società e le pandemie fossero sistemi deterministici, ma queste idee non hanno mai portato fortuna quando sono state usate per governare le società o controllare le epidemie.
In seconda battuta, le persone non vaccinate non sono vettrici di contagio sino a prova contraria: sono persone sane fino a prova contraria. Mentre ci sono sicuramente individui che, in ragione delle loro attività e della loro quotidianità, sono esposti a situazioni delicate (coloro che per esempio devono assistere un parente malato e per questo entrano in contatto con ospedali e altri malati, le persone che lavorano in situazioni di forte socialità come controllori e cassiere, eccetera) e altri che invece conducono una vita che non rende necessariamente più probabile che essi contraggano Covid-19 anziché altre infezioni.
Inoltre, l’impressione è che chi invoca l’obbligo vaccinale, pur credendo evidentemente nell’efficacia dei vaccini, trascuri il contesto, radicalmente diverso rispetto al 2020: sia per la quota di popolazione immune (vaccinati e persone che hanno contratto la malattia) sia perché, comunque, un anno di pandemia ha comportato una evoluzione dei comportamenti (mascherina al chiuso, distanze, ecc.). Inoltre, gli esiti sanitari peggiori sono concentrati in alcune classi di età.
La scelta della strategia di vaccinazione poteva prendere due strade: da una parte, vaccinare le persone più attive e dunque con più contatti sociali, dall’altra vaccinare invece le persone per cui gli esiti della malattia potevano potenzialmente rivelarsi più gravi. Si è scelta la seconda, probabilmente con buone ragioni vista la composizione demografica dell’Italia e degli altri Paesi occidentali. Da quella scelta oggi potrebbero essere tratte alcune ovvie implicazioni. La più rilevante riguarda la scuola.
Che senso ha promettere (minacciare) una scuola a due velocità, didattica in presenza per vaccinati e didattica a distanza per non vaccinati? Da una parte, questo sembra assumere che la didattica a distanza non abbia costi in termini di livelli di apprendimento. Lasciamo stare le buone intenzioni, la possibilità di una didattica a distanza diversa (sempre possibile, appunto) e addirittura migliore di quella che si consuma sui banchi. I test Invalsi di quest’anno suggeriscono che un costo, in termini di apprendimento, la Dad l’abbia avuto. Si tratta di un costo che pagheranno i nostri ragazzi in termini di successi professionali e di livelli di reddito.
Dall’altra, si immagina di sottoporre a vaccinazione un numero molto alto di persone (gli studenti di età superiore ai 12 anni, ma anche prima), per le quali individualmente i rischi legati al Covid-19 sono molto modesti. Nell’ottica dell’immunità collettiva e nell’idea di togliere al virus un ecosistema dove sperimentare nuove varianti la strategia ha senso. Ma non è la priorità. Le scuole hanno rappresentato un fattore di rischio, nella pandemia, non per i ragazzi che le frequentano ma per i loro contatti con gli adulti e, in particolar modo, gli anziani. È evidentemente sulla vaccinazione di questi ultimi che bisogna prima di tutto puntare: attraverso messaggi semplici ed efficaci, come i tweet dell’assessore lombardo alla Sanità, Letizia Moratti, che dando i numeri del processo di vaccinazione e offrendo ragguagli sui “nuovi arrivati” invita, implicitamente ed esplicitamente, alla vaccinazione.
La vaccinazione di massa degli studenti è un processo costoso, lungo e, dal punto di vista individuale, non necessariamente razionale. Mentre per noi adulti è razionale vaccinarsi contro una malattia che può farci molto male, non lo è per ragazzi che avrebbero, se la contraessero, esiti sanitari molto modesti, a fronte
a) di perdurante incertezza sulla durata dell’immunità ottenuta artificialmente (come pure di quella naturale) e
b) di un’incertezza ancora maggiore circa l’evoluzione del virus di qui a quando esso potrebbe rappresentare, per quelle stesse persone, un rischio rilevante e
c) di una comunicazione inefficace che paventa una rischiosità dei vaccini superiore a quella reale (e quindi di una possibile indisponibilità dei genitori).
Esistono, al contrario, 200mila insegnanti di scuola, impiegati dello Stato, che non si sono vaccinati, presumibilmente per ragioni ideologiche. Se vogliamo introdurre forme di obbligatorietà, perché non cominciamo da loro e dai sanitari? Si tratta di persone che hanno un diverso profilo di età, che corrono rischi significativi, che sono a contatto con altre persone le quali a loro volta possono portare il virus ad altri.
In Italia a pensare male si fa peccato ma quasi sempre si indovina. E se la discussione su obbligatorietà per tutti e usi “creativi” del Green Pass per limitare le libertà individuali non avesse che una ragione e cioè l’incapacità cronica delle classi politiche e dei governi di prendere di petto i sindacati, in questo caso degli insegnanti? L’applicazione del d.l. 44 del 1 aprile 2021, che stabilisce l’obbligo vaccinale per il personale sanitario, sta generando centinaia di ricorsi al TAR, anche se con argomenti ridicoli, se si pensa che a sottoscriverli sono dei professionisti con laurea in medicina o professioni sanitarie.
A metà giugno gli operatori sanitari non vaccinati erano ancora 46mila circa su circa 700mila, tra cui i medici sarebbero poche centinaia, ovvero lo 0,2 per cento. Di fatto, sul fronte insegnanti la percentuale di chi non si è vaccinato si approssima al 25 per cento del totale, cioè sono 200mila su oltre 800mila. Il Cts e il Ministero stanno discutendo e valutando come procedere per chiudere una rischiosa falla, che può pregiudicare il varo del prossimo anno scolastico. Ma già qualcuno mette le mani avanti dicendo che non è semplice fare un decreto che obblighi gli insegnanti a vaccinarsi.
Forse proprio per questo si finisce per seguire il ragionamento più semplice e la via più facile, cioè l’obbligo per tutti, perché in questo modo si riesce a superare l’opposizione di alcuni gruppi sociali ovvero anche di partiti che hanno una formidabile base elettorale negli insegnanti? Se ne dovrebbe dedurre che non stiamo discutendo di come contrastare la pandemia ma semplicemente dell’eterna irriformabilità di un Paese ostaggio dei gruppi d’interesse, rispetto ai quali l’unica politica possibile, anche per un governo anomalo come questo guidato da Mario Draghi, è il passare dove l’acqua è più bassa.