Se negli Stati Uniti Facebook ha recentemente avviato un nuovo test che permette alle persone di segnalare contenuti estremi ed estremisti e si avvale della collaborazione con esperti, ong e accademici per sostenere quanti siano stati o siano vittime dell’odio in rete, in Europa e in Italia stiamo assistendo più o meno increduli a una potentissima quanto pericolosa deflagrazione del fenomeno che non solo ha potenziato la solita intolleranza contro i tradizionali bersagli discriminati per etnia, religione, identità di genere, disabilità, ma ne ha creati e individuati di nuovi.
Secondo la ricerca «Il barometro dell’odio» condotta da Amnesty International Italia, giunta alla sua quarta edizione e dedicata quest’anno all’intolleranza pandemica, la crisi che stiamo attraversando da lunghi mesi ha portato alla luce nuove vulnerabilità e discriminazioni che fanno emergere un odio profondo verso categorie sociali e segmenti professionali considerati quali autentici “untori”. Dunque, ai migranti e ai rifugiati, capro espiatorio preferito da sempre dagli odiatori, oggi si affiancano gli operatori sanitari, i runner e in generale tutti coloro i quali si pensa possano godere di esclusivi quanto presunti benefici.
Nel dettaglio quel che emerge dall’analisi è una sorta di evoluzione del fenomeno che ha compiuto il passaggio da primitivo e rudimentale esercizio di offesa diretta, attività che risulta in diminuzione, per passare alla fase successiva di incitamento all’odio.
Quel che è accaduto quindi in questi mesi è stato il superamento definitivo della dimensione limitata a un numero esiguo di contendenti, tra i quali generalmente intercorre la pratica dell’insulto, pratica che per altro può essere smorzata e smontata da un atteggiamento disarmante da parte del ricevente l’offesa il quale ha dunque nelle proprie mani il potere di determinarne il successo o il fallimento.
L’odio online, tuttavia, non ha solo ampliato i propri confini diventando capace di generare veri e propri movimenti opposti e contrari, ma si è anche più radicalizzato e la prova appare chiaramente quando si incrociano temi legati ai diritti economici, sociali e culturali. Temi nei quali affonda le radici la crisi che stiamo attraversando che come ben abbiamo compreso non è solo sanitaria o economica ma di portata ben più ampia. Ed è in questo terreno che si ramifica con maggiore vigore quel sentimento di rabbia che sfocia nella caccia al suddetto untore. Basti guardare la reazione degli utenti in risposta ai post o ai tweet dei politici.
In una fase così delicata è dunque la comunicazione cosiddetta istituzionale a doversi assumere il ruolo essenziale di raccontare un presente estremamente complesso usando un approccio di estrema neutralità e un linguaggio chiaro, comprensibile e inclusivo. Mentre in realtà il registro stilistico scelto si è rivelato e si rivela nella maggior parte dei casi o troppo complesso o troppo astratto, e di conseguenza portatore di ulteriore confusione soprattutto in quelle fasce poco scolarizzate, o con una scarsa conoscenza della lingua, che sono perciò più vulnerabili e più esposte al rischio.
«La parola è per metà di colui che parla e per metà di colui che l’ascolta», sosteneva uno tra i più celebri filosofi del rinascimento francese. Eppure, nonostante dal rinascimento a oggi Montaigne sia stato letto, studiato e citato infinite volte, non siamo ancora stati capaci di soffermarci e riflettere sul significato più autentico di questa semplice e finanche scarna affermazione.
Se lo facessimo capiremmo perfettamente il potenziale di violenza che già per sua natura il linguaggio possiede in quanto flusso che non si esaurisce con l’ultima parola pronunciata ma prosegue nella coscienza di chi ascolta, nell’intimo del suo essere.
L’idea che stiamo andando verso una deriva comportamentale che in spregio alle regole della coesistenza nel rispetto dei diritti di tutti avochi a sé forme di linguaggio espressamente odiose e violente per incitare scientemente allo scontro mi pare una delle più evidenti forme di inciviltà. E lo è in termini assoluti, chiunque sia a esprimerle, chiunque sia il destinatario, qualunque sia l’oggetto.
Se nel nostro Paese da dieci anni a questa parte i crimini d’odio rilevati dal ministero dell’Interno risultano letteralmente esplosi, il segnale che vi scorgo è di duplice natura: da un lato la scomparsa della speranza e dall’altro il preludio a una violenza anche fisica.
Dunque, non vi è solo da incidere per un cambio di rotta attraverso azioni istituzionali o normative. Non vi è solo da auspicare che i gestori delle piattaforme social si strutturino con sistemi capaci di mitigare il rischio se non di censurare i casi più eclatanti, c’è da intervenire a monte, ripristinando una consapevolezza individuale. Per innescare questo processo a ritroso amerei poter contare sul senso del dovere e sulla ragionevolezza di coloro i quali hanno raggiunto posizioni apicali nel mondo della scienza, della politica, dell’arte o dell’economia e che pur tuttavia vedo indulgere alla stessa pratica.
Li esorto a considerare quanto un simile atteggiamento possa essere estremamente pericoloso poiché veicola il messaggio che manifestare odio direttamente o aizzarlo negli altri sia una pratica trasversale, quindi normale e dunque definitivamente omologata. Da qui a che venga considerata giusta il passo non è poi così breve.