Altro che neoisolazionismo. La «Global Britain» del dopo Brexit è ancora dipendente dall’Europa. Ne ha bisogno persino per difendere quei confini al centro della retorica sovranista. Il governo inglese ha pagato 54 milioni di sterline, quasi 63 milioni di euro, alla Francia perché rafforzi i controlli e aiuti Londra a contenere gli sbarchi di migranti: settecento in due giorni, è stato superato il totale dell’intero 2020 (di 8.461) ad appena metà estate. Intanto, il Regno Unito prova a chiedere la modifica di alcuni aspetti del protocollo sull’Irlanda del Nord.
L’accordo per rafforzare la cooperazione è stato chiuso da Priti Patel, a capo dell’Home Office, con il ministro francese dell’Interno Gerald Darmanin. L’obiettivo di Downing Street è finanziare il raddoppio degli agenti schierati da Parigi a pattugliare le coste settentrionali, sul modello di quanto avvenuto coi 28 milioni di sterline già stanziati a novembre dell’anno scorso. In un certo senso, si tratta di una seconda tranche: la prima non è bastata. Vista dall’isola, è come aumentare le spese di sicurezza esternalizzando le ronde.
Una traversata illegale del canale d’Inghilterra costa circa 2.500 sterline a persona; in media, ne riesce una su due. I fondi britannici dovrebbero coprire un’espansione dell’organico fino a 200 uomini della police aux frontières, impegnati ogni giorno. Parte del denaro servirà anche a migliorare le tecnologie di sorveglianza e l’integrazione delle informazioni di intelligence tra le due nazioni. Londra spera di replicare trattati simili su scala europea per rallentare i flussi di una rotta migratoria – quella della Manica – secondaria rispetto a quella balcanica o al confine meridionale del continente.
Anche la Border Force inglese è in difficoltà di fronte ai numeri in crescita delle partenze. Non sono più sufficienti le otto navi che prima coprivano il tratto di mare: di recente per intercettare le imbarcazioni dei migranti, oltre alla guardia costiera, sono stati mobilitati anche pescherecci e mezzi delle ong. I 430 sbarchi di lunedì hanno segnato un record, riscrivendo un primato del settembre 2020 (416). Al di là dei dati di questi giorni, non si tratta però di un’emergenza.
Come fa notare la BBC, le richieste d’asilo nel Regno Unito sono stabilmente in calo da alcuni anni e, in ogni caso, sono più basse di quelle di paesi delle stesse dimensioni: le 45 mila del 2019, per esempio, sono meno di un terzo di quelle registrate in Francia. Gli arrivi coi barchini, poi, incidono poco sul monte complessivo di chi fa domanda per rimanere. Anche questo totale, su base storica, si è contratto di sette volte in confronto al decennio di Tony Blair, primo ministro laburista dal 1997 al 2007.
Il sistema d’accoglienza britannico ha problemi peggiori. Malgrado riceva un miliardo di sterline, rispetto al 2014 è raddoppiato il numero dei richiedenti asilo che sono bloccati in attesa di un verdetto sul loro status. Ora sono 109 mila, a fronte di 36 mila nuove domande nel 2020. Prima di guardare ai confini altrui, forse Londra dovrebbe aggiustare i limiti di casa propria. Il Nationality and Borders Bill, cioè la stretta securitaria che prevedrà fino a 4 anni di carcere per gli immigrati entrati illegalmente, è stato approvato martedì in parlamento (con 366 voti a favore e 265 contro). Secondo Amnesty International, ingolferà ulteriormente la paralisi burocratica. E costerà più che pagare i pattugliamenti francesi: 412 milioni di sterline all’anno.
«I conservatori – ha detto nel dibattito a Westminster il leader laburista Keir Starmer – hanno appena votato per rendere più difficile dare una casa sicura a un bambino che scappa da violenza e guerra, dovrebbero vergognarsi». È ancora troppo presto per misurare il potenziale di deterrenza del provvedimento, per adesso solo due stati – India e Albania – hanno firmato un’intesa per riprendersi i (propri) migranti espulsi dal Regno Unito.
L’opposizione interna ai Tories, intanto, contesta il patto con l’Eliseo: secondo l’ex ministro Tim Loughton, la Francia non si impegna abbastanza per fermare chi salpa verso le coste inglesi. Va poi considerato che, per ammissione della stessa Patel, più del 60% dei migranti oggi passa dal Belgio e non dalla Francia, appena rifinanziata. Anche 63 milioni di euro potrebbero essere troppo pochi per tamponare la falla.
Sul fronte dell’Irlanda del Nord, invece, Londra ha pubblicato un documento di 28 pagine per chiedere modifiche al protocollo siglato nel 2019 con l’Unione europea. Tra le principali proposte, rimuovere i controlli doganali alle merci inviate dal Regno Unito che abbiano l’Ulster, e quindi non il resto del mercato unico, come destinazione finale e, nel caso dei generi alimentari, eliminare del tutto i certificati e le ispezioni. Si invoca una seconda tregua alla «guerra delle salsicce» che rischiava di stoppare le importazioni di carne lavorata e refrigerata.
Come ha spiegato il ministro per la Brexit David Frost alla Camera dei Lord, «In Irlanda del Nord c’è sempre di più l’impressione che non abbiamo trovato il giusto equilibrio». Chissà di chi è la colpa. Bruxelles ha ribadito chiaramente che non intende rinegoziare il trattato, ma deve aver apprezzato l’apertura del governo: almeno per adesso, Londra non invocherà l’articolo 16, che consentirebbe di sospendere parte del Withdrawal Agreement. «Non è il momento adatto per farlo», dice Frost, anche se il suo esecutivo lo riterrebbe giustificabile.
«Siamo pronti – gli ha risposto il vicepresidente della commissione europea Maroš Šefčovič – a continuare a cercare soluzioni creative, nel quadro del Protocollo, nell’interesse delle comunità dell’Irlanda del Nord. Dobbiamo dare la priorità alla stabilità» della regione. I due si vedranno presto. Un compromesso potrebbe partire dall’ultima offerta di Downing Street: circoscrivere la moratoria a ciò che viene spedito nelle sei contee per restarvi.