Rischio déjà-vuPer riaprire le scuole servono più vaccinazioni

Al momento risulta che il 15% di chi lavora negli istituti (tra docenti, personale Ata e dirigenti) non ha ricevuto nemmeno la prima dose. Troppi. Per non ripetere il caos degli anni passati sarebbe opportuno, come si è fatto per le professioni sanitarie, introdurre l’obbligatorietà, oppure differenziare le misure a seconda dello stato di immunizzazione di ciascuno e del livello di circolazione del virus nel paese

di Kelly Sikkema, da Unsplash

Mi sembra di essere tornato a 12 mesi fa. Vi ricordate?

Erano i primi di luglio dell’anno scorso e mi ritrovavo a scuola, con metro e distanziometro, a cercare di capire come avremmo potuto adattare nella pratica le indicazioni del CTS per la riapertura a settembre.

Mi tornano in mente tutti i discorsi sul distanziamento di un metro e mezzo (all’epoca non si parlava ancora di contagio per aerosol) che poi diventò il famoso “metro statico”, le indicazioni degli Usr su come disporre i banchi, il “cruscotto” che doveva aiutarci a calcolare il numero massimo di alunni per classe e che poi si è rivelato essere, nella sostanza, una tabella excel che avremmo dovuto compilare noi.

E poi le promesse di screening e tracciamento, che avrebbero dovuto tenere sotto controllo il virus e permetterci di fare scuola normalmente.

E due cose, in particolare, mi provocano una terribile sensazione di déjà vu.

La prima è la dinamica dei contagi, che in Italia, l’anno scorso come oggi, stava arrestando il suo calo proprio all’inizio di luglio, per poi riprendere lentamente a salire; la seconda è l’idea che esistano delle “misure di sicurezza”, decise dal governo, che, da sole, potranno far tornare a scuola gli alunni e il personale scolastico in completa sicurezza.

L’anno scorso, dopo pochi giorni, fu subito evidente come i protocolli di sicurezza non potessero reggere di fronte a una ripresa dei contagi, specialmente se consideriamo la scuola nella sua globalità e cioè comprendendo anche i trasporti.

Mi spiace dirlo, ma con un virus che si trasmette per via aerea, chiudere 25 alunni in un’aula di 60 metri quadrati, quando va bene, anche con le mascherine chirurgiche, significa mettere il virus nelle condizioni giuste per diffondersi. E la stessa cosa, se non peggio, è mettere quegli stessi ragazzi, mischiando i gruppi a seconda delle provenienze, negli autobus diretti verso casa.

Certo, c’è la possibilità di tenere le finestre aperte e migliorare la ventilazione, prevedere turni, scaglionamenti ecc., ma sono misure di mitigazione del rischio, che lo diminuiscono ma non lo eliminano.

L’anno scorso il dibattito è stato del tipo: la scuola è sicura? Sì/No.

Ecco, se viene impostato in questo modo, allora la risposta non può che essere no ed essere ben consapevoli che nessuna misura che potrà essere decisa in queste settimane, purtroppo, potrà permetterci di tornare a settembre in presenza, con rischio ZERO.

E allora cosa dobbiamo aspettarci? Di nuovo un anno di didattica a distanza?

Se la logica è quella della “totale sicurezza” allora sì, la risposta non può che essere questa. Ma si deve davvero utilizzare quella la logica?

Io credo che dovremo tutti pensare che solo calcolando e quantificando il rischio che si corre, si possono prendere delle decisioni razionali, senza farsi prendere dall’eccessivo ottimismo prima e dal panico poi.

Il rischio zero, a scuola come altrove, non ci sarà mai. Può, però, essere fortemente ridotto sfruttando, più di qualsiasi altra misura, l’unica grande e importante differenza tra luglio 2020 e luglio 2021: i vaccini.

I vaccini attualmente a nostra disposizione sono sicuri ed efficaci contro tutte le varianti conosciute sino a oggi.

Ma anche qui, il fatto che siano efficaci, non significa che il rischio sia ridotto a ZERO. C’è una piccola possibilità di contagiarsi e ammalarsi nonostante si sia completato il ciclo vaccinale. In alcuni casi è possibile finire addirittura in ospedale e, in presenza di altre patologie, non farcela.

Si può quantificare questo rischio? Sì, guardando e interpretando bene i dati che arrivano dal Regno Unito, dove si sta diffondendo la variante Delta, che sta portando ad un aumento dei casi Covid proprio nelle fasce di popolazione più giovani.

Dall’analisi di quei dati possiamo notare che le ospedalizzazioni e le morti ci sono, anche tra i vaccinati, ma sono molte di meno rispetto a quelle che si saremmo aspettati, per quelle fasce d’età, in assenza del vaccino.

Vi ricordo che, in Italia, prima che la campagna vaccinale andasse a regime, la letalità sopra i 70 anni era al 9% (oltre il 27% per gli ultra novantenni) ed era già superiore al 2,5% per gli adulti tra i 60 e i 70 anni di età.

Con i vaccini questi numeri non si azzerano, ma si riducono molto, permettendoci di agire su due aspetti fondamentali.

Il primo è quello degli effetti sanitari che, post vaccinazione, non diventeranno quelli di una banale influenza ma saranno certamente più gestibili, dando anche tempo alla ricerca di perfezionare i vaccini già in uso in modo tale da aumentare la protezione anche contro le nuove varianti.

Il secondo è quello della circolazione del virus, che va ridotta il più possibile sia per ridurre le conseguenze sanitarie del contagio, sia per limitare le possibilità di sviluppo di nuove varianti virali.

A scanso di equivoci è meglio puntualizzare: il virus non sviluppa le varianti “perché ci sono i vaccini”, ma le genera casualmente quando si replica. Più il virus circola, quindi, più aumenta la possibilità di vedere nuove varianti virali.

I lockdown sono stati interventi efficaci proprio perché agivano su questi due aspetti e la copertura vaccinale funziona allo stesso modo, ma con un’importante differenza: ci permette di non chiudere e tornare a una vita quanto più possibile vicina alla normalità.

Se a settembre vogliamo scuole sicure (dove il termine sta a indicare un rischio ridotto ma non nullo) dobbiamo innanzitutto vaccinare il personale scolastico e quei milioni di ultrasessantenni che ancora non lo sono e poi, per ridurre la circolazione, fare lo stesso con tutte le fasce d’età per cui i vaccini sono stati approvati, quindi anche i ragazzi in età scolare.

E chi, nonostante tutto, non si vuole vaccinare?

Una prima soluzione sarebbe quella di prevedere l’obbligo vaccinale per legge, così come è stato fatto per le professioni sanitarie, estendendolo anche al personale scolastico. I dati aggiornati allo scorso 25 giugno, infatti, dicono che circa 227 mila tra docenti, personale Ata e dirigenti scolastici, pari al 15% del totale, non hanno ancora ricevuto nemmeno la prima dose del vaccino.

Sono troppi e rischiano di rendere vani tutti i piani di riapertura delle scuole. L’obbligo vaccinale, quindi, potrebbe essere necessario per portare la copertura al 100%.

Possiamo, però, pensare di estendere l’obbligo a tutta la popolazione e quindi anche agli ultrasessantenni che non si sono vaccinati? In via teorica è certamente possibile, ma non è detto che sia desiderabile.

Si potrebbe, invece, optare per un approccio diverso e differenziare le misure di protezione a seconda dello stato vaccinale e del livello di circolazione del virus nel paese.

Se una persona ha completato il ciclo vaccinale perché le deve essere impedito, in un’ipotetica nuova zona rossa, di circolare liberamente per strada senza mascherina, di andare al ristorante, al cinema oppure a scuola?

Già, la scuola. Forse in tanti ancora non l’hanno capito ma, evitando di vaccinarsi (e di vaccinare i propri figli), stanno costruendo tutte le premesse per regalare ai nostri ragazzi un altro anno di scuola a singhiozzo, di lockdown, di didattica a distanza e di mancanza di socialità.

Vogliamo che siano nuovamente loro a pagare le colpe di altri?

Marco Bollettino è dirigente scolastico. Fa parte del gruppo “Condorcet. Ripensare la scuola” (http://condorcet.altervista.org/)

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