Tempo fa uno spot di un noto gestore telefonico nazionale, dedicato al possibile futuro delle telecomunicazioni, in Italia, mostrava un chirurgo chiamato d’urgenza dal proprio ospedale durante il matrimonio della figlia mentre opera a distanza il paziente direttamente dal sagrato della chiesa, grazie a visori e altri futuristici sensori. Un esempio estremo di smartworking, che però rende l’idea delle possibilità che la tecnologia dà per lavorare. Sono sempre più le persone che decidono di fare smartworking in uffici-rifugi a più di milledue-milletrecento metri di altezza. Vista mozzafiato, aria pulita, sperando che la connessione non salti ogni due minuti.
Essere smartrekker in Italia, al giorno d’oggi, vuol dire programmare le ‘trasferte’ lavorative alla domenica sera, di ritorno dal week end con amici e famiglia, prevedendo come destinazione un rifugio, e baita in alta quota e tornare a casa a metà settimana, dopo un paio di giorni o tre (questo è il tempo medio attuale dedicato a questa disciplina) dedicati allo svolgimento delle proprie mansioni in ambienti naturali unici in cui concentrarsi al suono rilassante delle cascate d’acqua o del vento che accarezza i larici in lontananza.
In questo modo si evade dalla routine quotidiana, dalla calura della pianura e nel tempo rimanente si può praticare attività all’aria aperta. Ai più temerari, veri randagi del 5G, sono dedicate già le Alte Vie con percorsi a piedi lunghi decine di giorni, coperte in parte della rete cellulare/dati o satellitare, per lavorare nelle strutture che aderiscono all’iniziativa, tra le quali vi sono l’alta via fra Lecco e Sondrio e quella sul sentiero Gta fra val Divedro e valle Antigorio nella provincia di Verbania. Ad un passo dal nomadismo digitale slow che prende piede nel resto del mondo.
«Il nomadismo digitale non è sinonimo di turismo lento. Molti sono quelli che lavorano spostandosi in aereo ogni occasione, da una città all’altra. Noi cerchiamo di rallentare il processo, grazie alla rete di strutture in alta quota che possono ospitare per più giorni i remote workers o smartrekkerts che decidessero di lavorare in rifugio o in baita, per poi spostarsi da un luogo all’altro al termine della giornata lavorativa, nello scenario unico alpino outdoor», spiega Nicola Cortesi del gruppo Facebook degli smartrekkers italiani, che conta già migliaia di simpatizzanti e un centinaio di veri lavoratori-camminatori che già quest’anno sosteranno in rifugio durante la routine quotidiana.
«I numeri potrebbero essere anche maggiori, ma molti preferiscono non comunicare da dove lavorano, per non incorrere in problematiche con i proprio datori di lavoro. Non tutti gradiscono questo trend – continua Cortesi – ma anche grazie a nuovi stili di vita come questo, le località turistiche alpine possono giovarne, destagionalizzare le prenotazioni in periodi diversi, diminuendo le concentrazioni tipiche nel sabato e domenica».
Ciò che ha rivoluzionato il settore, è l’arrivo del segnale internet (decente) in quota. La rete dati 4G e 5G è in continua espansione, nonostante la consueta lentezza di sviluppo rurale del Bel Paese.
Pian piano la rete sta raggiungendo anche borghi antichi e vette nevose, fra sforzi del pubblico e del privato. Certo fra avere il segnale internet, e saperlo usare bene, ne passa di acqua sotto ai ponti, ma questa via di prova, in tal senso, pare essere tracciata dai pionieri del lavoro da remoto. E una volta chiuso il notebook superportable alimentato da pannelli solari o energia idroelettrica messi a disposizione dai rifugisti (certo, in alcuni luoghi poco serviti esistono i novecenteschi generatori diesel, ma ci vuole pazienza, siamo pur sempre a un passo dall’isolamento di ‘‘Into the Wild’’) è possibile dedicare il resto della giornata a una corsa salutare fra i boschi in estate o una ciaspolata d’inverno.
I prezzi medi di un rifugio vanno dai 30 ai 100 euro a notte per persona, in base al trattamento, non proprio prezzi budget, ma in linea con gli alti costi di gestione di queste strutture.
La selezione è rigida. Sono proprio alcuni dei gestori di rifugi, a scacciare la moltitudine di persone, per predisporre a pochi fortunati la possibilità di usufruire delle sale comuni adibite a luoghi di culto del manager alternativo, per le proprie riunioni d’ufficio, per la creatività di designer o architetti in full immersion nel verde o addirittura l’insegnamento in Dad ai propri alunni a centinaia di chilometri di distanza.
«Siamo solo all’inizio, ma siamo ottimisti – fanno sapere dai duemila metri del rifugio Zoia, nella Valmalenco – Ma vi prego, non fate troppa pubblicità. Il parterre di fruitori è limitato dagli spazi e dalla qualità dell’ambiente, nel silenzio e nella concentrazione, che verrebbe meno nel trambusto generalizzato. Una nicchia d’elite che comunque vediamo in lenta ma costante allargamento», conferma Emanuele, gestore dell’attività.
A oggi la rete di alte vie con punti di connessione internet si trovano in Lombardia e Piemonte, fra alcuni rifugi valtellinesi o ossolani, ma la rete si sta espandendo a macchia d’olio, nel triveneto e nel torinese, dove si spera di attrarre questa nuova tipologia di animale digitale anche dall’estero. Anche il Trentino Alto Adige si adegua ai nuovi trend digitali, grazie anche d una nuova rete dati di quinta generazione, sparsa sul territorio.
I rifugi più famoso
Il rifugio Crosta insieme all’alta via Gta in val d’Ossola che garantisce connessione internet e stradale a poche ore dai grandi centri (in treno da Domodossola, per evenienza, si raggiunge Milano in 1h e 30; Ginevra in 2h e 30). Più a est, gli smartrekkers veneti possono affidarsi al Rifugio Alpe Madre con ampi spazi e connessione a banda larga con gb illimitati e esperienza già annuale nel settore: «da noi – fanno sapere dal Rifugio – gli ampi spazi, le strade e i sentieri come la banda larga permette la classica sosta di un paio di giorni, che se ben organizzata, può ampliarsi grazie agli spostamenti in auto e trekking verso le altre strutture connesse sul territorio».
Anche gli Appennini puntano a diventare meta della fuga settimanale contro la canicola estiva del fondovalle giù, giù per tutta la Penisola, favoriti dalla frescura in quota. Sono più di un centinaio i siti con hotspot di rete sul territorio nazionale ad alta quota. «Alle montagne d’Italia serve però un piano nazionale di rilancio che sia una boccata di ossigeno per le strutture ad alta quota, dopo la fase dura della pandemia – spiega Marco Bussone di Uncem, l’unione delle comunità di montagna italiane – Di mode di passaggio ne abbiamo viste tante, ma per far rivivere la montagna servono strategia ad hoc per evitare la “transumanza”: quel genere di turista o fruitore di montagna che la popola solo pochi giorni all’anno, senza lasciare poco o nulla sul territorio, senza acquistare prodotti tipici o portandosi il pranzo da casa».
Lo spopolamento dei borghi alpini rimane un problema e il periodo di sosta rimane limitato dalla mancanza di servizi, uno su tutti l’assistenza sanitaria. «Senza farsi illusioni, la montagna rimane un luogo difficile da abitare, molti sono attratti da questi paesaggi da cartolina, ma effettivamente ci vuole grande caparbietà e organizzazione per poter lavorare e vivere in luoghi remoti di montagna. Ma l’operato constante di strutture d’accoglienza, degli abitanti e appassionati di questi fantastici luoghi può far la differenza sul lungo periodo», spiega Bussone.