Pop FictionTarantino non ha solo scritto un romanzo, ha inventato un nuovo genere letterario

“C’era una volta a Hollywood” (La Nave di Teseo) non è la semplice riproposizione del film vincitore di due premi Oscar. Nella sua forma ibrida condensa sceneggiatura, dialoghi, saggi critici, invenzioni fortunate e lampi di fantasia che superano i confini dei canoni classici

di Andi Wieser, da Unsplash

Il titolo è quasi uguale, la storia è simile, l’autore è lo stesso. “C’era una volta a Hollywood” (senza puntini di sospensione) è il primo libro di Quentin Tarantino ed è anche una riproposizione del suo ultimo film. Niente di strano: il genere, cioè l’adattamento da film a romanzo, è uno dei meno nobili del mondo editoriale, si accompagna (così scrive il Guardian) alle autobiografie dei protagonisti di reality show. Tutto sommato è in linea con un autore che ha sempre dichiarato il suo amore smodato per la cinematografia di serie B, è che è sempre stato debitore nell’assemblaggio dei suoi capolavori (Pulp Fiction in primo luogo) dell’estetica degli exploitation movie.

Anche il libro, che nell’edizione americana ha l’aspetto di un paperback di massa degli anni ’70, non si sottrae (in Italia lo pubblica la Nave di Teseo, con traduzione di Alberto Pezzotta). Solo che l’operazione è diversa. Il libro non racconta la stessa storia del film, ma ne costituisce per certi versi un’espansione. È sempre la vicenda di Rick Dalton (nel film interpretato da Leonardo DiCaprio) e del suo amico/controfigura Cliff Booth (Brad Pitt), che si trovano a vivere in un cinema nuovo che – per loro sfortuna – non ha più bisogno di loro. C’è sempre Sharon Tate (nel film Margot Robbie) e c’è anche Charles Manson (Damon Harriman).

Gli eventi seguono una nuova disposizione (la più clamorosa: la scena finale del lanciafiamme viene ridotta a tre righe a pagina 138, su un volume di 400 esatte) e vengono introdotte nuove storie laterali, con maggior risalto sia a Cliff che a Charles Manson. Quest’ultimo, che affascinava il regista (ora scrittore) fin dall’infanzia, viene raccontato nella sua dimensione di sconfitto – voleva diventare una rockstar e non il leader di un culto hippie violento – respinto da agenti e produttori. C’è spazio anche per una scena in cui Pussycat (Margaret Qualley) si introduce di notte in una casa, di nascosto, si spoglia nuda e, una volta raggiunta la camera da letto dei proprietari, che dormivano, cambia la lampadina e accende la luce, buttandosi addosso a loro (una bravata inquietante che si chiamava creepy crawling).

Su Cliff Booth, invece, vengono date le spiegazioni che mancano nel film. Spiega come si fa a uccidere un uomo (per dare consigli all’amico Rick, gli suggerisce di provare ad ammazzare un maiale), si racconta come sia entrato in possesso del suo cane (una questione di debiti) e, in un inserto tarantinesco, di come si sia sbarazzato della moglie. Le aveva sparato con un fucile da pesca allo squalo mentre erano in barca, tranciandola in due parti. Ma colto da pentimento, cerca di riunirle per salvarle la vita. La cosa incredibile (e appunto tarantinesca) e che ci riesce, almeno per qualche ora, tenendola in vita in modo il tempo di ripercorrere la loro storia d’amore. «Era una grandissima stronza. Meritava di essere tranciata in due? Forse no. Ma il minimo che si potesse dire era che senza Billie Booth la vita su questo pianeta sarebbe proseguita lo stesso. Anzi. In realtà, a piangerla fu solo sua sorella Natalie, che quanto a stronzaggine riusciva a batterla. E comunque dopo un po’ le passò».

Il passo di lato, rispetto a tutto, è che Cliff è anche un esperto di cinema. A dispetto del suo mestiere – tra gli stuntman pochi si appassionano di film da vedere, spiega – ama e conosce autori e opere. I suoi giudizi e i suoi commenti sono l’eco di quelle dello stesso Tarantino. Ama Alan Ladd e il suo modo di impazzire nei film, si appassiona al cinema straniero perché «trovava poco realistici i film di Hollywood».

Attraverso il suo vizio nascosto Tarantino fa una lunga digressione – quasi un manuale-saggio – di critica cinematografica, con poche sorprese. Cliff ama “Fino all’ultimo respiro” di Godard per la faccia di Jean Paul Belmondo, giudicata «da scimmia. Ma è una scimmia che mi sta simpatica». Adora Kurosawa, apprezza Fellini (finché non diventa un circo), si incanta per Jules Dassin e trova Antonioni «un ciarlatano». “I 400 colpi” lo lasciano freddo: «La metà delle cose che faceva quel ragazzino non le capiva proprio».

Quasi una sorta di corso accelerato di cinema, ma anche di musica e televisione, “C’era una volta a Hollywood” completa la sceneggiatura originale, restituisce storie tagliate e (inventa) cose nuove. Più di tutto però, nei dialoghi (di cui è maestro) e nella disposizione ondivaga delle scene, Tarantino parla, commenta e critica. Il risultato finale è un libro bellissimo, scritto male. Ma che se fosse stato scritto meglio non avrebbe lo stesso fascino.

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