Dosare gli aiutiSi fa presto a dire “vacciniamo l’Africa”, ma reperire le fiale sarebbe solo l’inizio

Nonostante il programma Covax e altre iniziative analoghe, per ora in tutto il continente solo il 2 per cento degli abitanti ha ricevuto la prima iniezione. Ma il problema è più grave di così perché non sappiamo neppure le dimensioni (passate e presenti) della circolazione del virus né quali varianti prevalgano. Per non parlare della diffusione di sentimenti no-vax

AP/LaPresse

«Immaginate di vivere in un villaggio colpito da carestia e siccità. Il pane non basta per tutti. Sono i più ricchi a controllare le panetterie. Pur di mangiare, tutti gli altri sono costretti a chiedere ai ricchi se possono avere le loro pagnotte». Non molti giorni fa, Strive Masiyiwa, magnate delle telecomunicazioni e inviato speciale dell’Unione africana per il coronavirus, descriveva così l’atteggiamento delle nazioni ad alto reddito verso quelle a basso reddito che sono state colpite, come il resto del mondo, dall’emergenza sanitaria.

Masiyiwa ha accusato i Paesi più ricchi di aver monopolizzato la produzione di sieri a vantaggio della propria popolazione e di non aver voluto consegnare al continente africano i vaccini che sono necessari per frenare la pandemia. Il programma Covax, ha detto l’inviato speciale dell’Unione africana, non è riuscito a mantenere la promessa di garantire la produzione di 700 milioni di dosi di vaccini nei tempi previsti per la consegna entro dicembre 2021. «L’Europa ha le fabbriche, ma nessuna dose, nessuna fiala ha lasciato una fabbrica europea per essere spedita in Africa», ha affermato il 2 luglio Masiyiwa. «In Europa ci sono così tanti vaccinati che ora si possono vedere le partite di calcio dal vivo e senza mascherina. È arrivato il momento che l’Europa apra centri di produzione e consenta all’Africa di acquistare i vaccini. Non chiediamo donazioni perché i soldi li abbiamo».

In Africa la percentuale di persone ad aver ricevuto una prima dose è inferiore al 2 per cento. A dare respiro al continente dovrebbe prendere avvio la produzione di vaccini monodose di Johnson & Johnson in un centro in Sudafrica, grazie a un’iniziativa finanziata dalla Banca mondiale: un accordo da 600 milioni di euro, annunciato in settimana, consentirà alla Aspen Pharmacare Holdings Ltd. di produrre 500 milioni di fiale per tutto il 2022, di cui 250 milioni entro il 2021.

Il problema dell’Africa è esploso tra marzo e aprile 2021 quando il Serum Institute of India, per fronteggiare la grave crisi sanitaria del Paese, ha disposto il blocco delle esportazioni dei sieri anti-Covid. «Il blocco ha avuto una serie di ripercussioni su Covax, con la distribuzione di circa 200 milioni di dosi in meno rispetto a quelle previste», spiega Marco Cochi, già ricercatore del CeMiSS – Centro militare studi strategici del Ministero della Difesa – analista dell’Osservatorio ReaCT, Eastwest e del think tank Il Nodo di Gordio. «Covax è la più grande operazione di acquisizione e fornitura di vaccini nella storia. Tuttavia, ha mostrato diverse criticità. Se intendiamo debellare il virus su scala mondiale le promesse d’impegno dovrebbero essere mantenute in tempi rapidi e ulteriormente potenziate, ma soprattutto andrebbe migliorato il modo in cui i vaccini vengono distribuiti e somministrati. Il lento progredire delle vaccinazioni nel continente è causato anche da problemi relativi alla distribuzione, alla mancanza di infrastrutture e alla carenza di personale sanitario».

Anche per Vincenzo Racalbuto, titolare della sede di Khartoum dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, i vaccini da soli non bastano: «Il programma Covax ha fornito mediamente un milione di dosi di vaccino a Paese, quindi un numero basso. Ma non è che le dosi arrivate siano state subito utilizzate, perché vaccinare è complesso e costa. Se si fornisce solo il costo del vaccino, si sta fornendo appena il 10 per cento del costo totale della vaccinazione. La comunità internazionale non ha dovuto fornire solo i vaccini, ma circa 15 dollari a persona per fronteggiare l’epidemia, quasi un anno fa. Per esempio, in Sudan la Banca mondiale ha appena firmato un accordo per donare 100 milioni di dollari per fronteggiare l’emergenza Covid e per i vaccini. In molti Paesi, dunque, l’aiuto concreto c’è».

L’invio delle dosi inutilizzate del vaccino della multinazionale biofarmaceutica anglo-svedese AstraZeneca potrebbe rappresentare una valida soluzione per Cochi, che aggiunge: «Riguardo all’Africa c’è da tener presente che ci sono più di un milione di dosi di vaccino di AstraZeneca in 18 Paesi del continente che devono ancora essere utilizzate prima della loro scadenza alla fine di agosto».

Si fa presto a dire “vacciniamo l’Africa” ma nei fatti non è così semplice. «Da un punto di vista epidemiologico», prosegue Racalbuto, «le persone che fanno il test molecolare o sierologico sono molto, molto poche. La situazione quindi non si conosce. La popolazione in media è molto giovane, e dunque è sicuro che gran parte delle persone ha contratto la malattia in forma del tutto asintomatica. Certo, tanta gente è morta, ma si muore per diverse altre ragioni. È bene ricordare che non si muore solo di Covid, si muore ancora molto di malaria. Prima di ogni cosa, non sappiamo quante persone dobbiamo vaccinare. Chi si è già ammalato? Dovremmo fare il test per capirlo. Tutta questa enfasi posta nell’obiettivo di vaccinare la popolazione africana un po’ alla rinfusa non so quanto sia utile. Per i sistemi sanitari, già precari, le campagne di vaccinazione diventano un problema enorme da gestire».

Così come altrove, spiega ancora Racalbuto, pure in Sudan molte persone sono contrarie a vaccinarsi, perché anche in questi territori i social hanno avuto il loro impatto. «Convincere queste persone a immunizzarsi non è stato affatto facile, ma ci siamo riusciti». Anche Cochi sottolinea il problema dello scetticismo: «C’è il timore che l’incertezza sulla sicurezza di alcuni vaccini, come quello di AstraZeneca e Janssen di Johnson & Johnson, così come i dubbi sulla diffusione del nuovo coronavirus, possano aver avuto influito sul basso tasso di somministrazioni che caratterizza l’Africa».

Per quanto riguarda la minaccia della variante Delta, Racalbuto non si stanca di ripetere quanto sia urgente il sequenziamento anche per l’Africa: «Bisogna fare in modo che i laboratori pubblici eseguano non solo i test molecolari ma comincino a garantire anche il sequenziamento. In Ciad, grazie all’assistenza dell’Università di Roma Tor Vergata, stiamo lavorando per il sequenziamento delle varianti, che non costa molto di più rispetto al vaccino. Ora è importante conoscere a fondo e monitorare la situazione, costantemente. Certo, bisogna fare di più soprattutto per rafforzare i sistemi sanitari, perché ogni volta che arriva una nuova malattia ciò che incide davvero è la situazione esistente. Se il meccanismo è sgangherato, la risposta sarà sempre debole».

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