Le discussioni sui metodi di contrasto alla pandemia possono essere sintetizzate in due grandi modelli di società: quelle più libere e meno propense ad applicare e rispettare le restrizioni, e quelle che prediligevano misure di sicurezza più rigide.
Le reazioni di uno Stato di fronte al pericolo, che sia una pandemia o altro, riflettono un modo di essere di quello stesso Stato, della sua politica, dei suoi cittadini, della sua vita. Inevitabilmente ci saranno, in tutto il mondo, alcuni Paesi più abituati di altri ad avere a che fare con malattie croniche, invasioni, disastri naturali e altri problemi di questo tipo. Questi Paesi avranno riflessi particolarmente sviluppati, saranno abituati a prendere contromisure efficaci e i loro cittadini saranno più disposti ad accettare le strategie messe in campo dai loro governanti.
È il tema attorno a cui ruota un lungo articolo pubblicato da Foreign Affairs, firmato da Michele Gelfand, sulle differenze nella gestione della pandemia – e più in generale del pericolo – da parte di diversi Stati. Gelfand distingue proprio tra due tipi di culture, che chiama tight, rigide, severe, e loose, blande, libere: «Le prime tendono ad osservare pedissequamente le norme sociali, con le persone che non tollerano la devianza e generalmente seguono le regole. I Paesi “liberi” celebrano la creatività e la libertà individuali. Sono negligenti nel mantenere regole e costumi ma molto tolleranti nei confronti di nuove idee e modi di essere».
La distinzione tra le due forme di cultura sociale è stata osservata per la prima volta dallo storico greco Erodoto, nel V secolo (a.C.): distingue tra la libertà dei persiani e la rigidità degli egizi, rendendo i due popoli e le due società archetipi di tendenze opposte.
Su questa differenza basica e sostanziale Gelfand costruisce un ragionamento riguardo la pandemia: «Il Covid ha ucciso più di tre milioni di persone in tutto il mondo, ma il tasso di mortalità è notevolmente disomogeneo tra i Paesi. Alcuni hanno risposto ai primi focolai con un’azione rapida e decisa, imponendo lockdown, chiudendo i confini, implementando una rigorosa tracciabilità dei contatti e imponendo il distanziamento sociale. La maggior parte ha evitato il peggio, registrando un numero relativamente basso di casi e decessi. Altri Paesi hanno scelto una strada diversa, con risultati tragici».
L’esempio è quello di Taiwan e della Florida, due Stati con circa 20 milioni di cittadini, che però lo scorso maggio avevano registrato un numero molto diverso di decessi: 23 a Taiwan, oltre 36mila la Florida. In questo caso, l’enorme sproporzione è data dalla diversa capacità dei cittadini di rispettare le norme sociali. Queste ultime però non sono soltanto il frutto della rigidità – o apertura – dei governi. «Le norme sociali formano il sistema nervoso degli stati-nazione, proprio come i sistemi nervosi del corpo hanno punti di pressione comuni che possono innescare riflessi istintivi», scrive Gelfand su Foreign Affairs.
Nel caso della pandemia, i Paesi con alti livelli di “libertà” – sempre da intendersi come minor propensione alle misure rigide – hanno avuto oltre cinque volte i casi e otto volte i decessi rispetto a quelli disposti a rispettare limitazioni più dure.
È anche un discorso di percezione dei cittadini: i Paesi più permissivi hanno avuto molta meno paura del Covid-19, anche se i casi erano molti. Nei Paesi con norme più rigide il 70% delle persone aveva molta paura di contrarre il virus, spiega l’articolo di Foreign Affairs.
«Le culture rigide – si legge – esemplificano l’ordine e la disciplina, quindi le società costruite su queste basi tenderanno ad avere cittadini più attenti alle regole. Le altre, al contrario, sono più tolleranti nei confronti degli stranieri, di religioni e orientamenti sessuali diversi, e hanno livelli di creatività molto più elevati».
Ci sono dei parametri e delle condizioni che contribuiscono a creare e consolidare un tipo di cultura. Ma non sono legati a geografia, lingua, religione o al Pil, come si potrebbe pensare: il Giappone e il Pakistan hanno culture restrittive, ma hanno economie molto distanti; Stati Uniti e Brasile sono entrambi molto “liberi”, ma il Brasile è molto più povero.
È vero, invece, che le comunità esposte a pericoli frequenti hanno bisogno di regole più rigorose per sopravvivere. Una società che ha subito poche minacce esterne può permettersi di essere permissiva. Al contrario, le culture più rigide sono spesso quelle alle prese con disastri naturali frequenti, una una maggiore prevalenza di malattie, scarsità di risorse, alta densità di popolazione e invasioni di altre popolazioni.
Gli Stati Uniti, ad esempio, sono circondati da oceani, hanno abbondanti risorse naturali e hanno affrontato relativamente poche invasioni e gravi disastri naturali nella loro storia. Singapore, al contrario, ha oltre 20mila persone per miglio quadrato, soffre di scarsità di risorse e ha sopportato il rischio di violenza etnica nel ventesimo secolo. Inevitabilmente le due società svilupperanno culture molto diverse.
«Ovviamente le società non sono monoliti e possono avere aree in cui le norme vengono osservate più o meno pedissequamente. Ma in generale il tipo di approccio che prevale è quello che, numeri alla mano, permette di capire l’andamento dei contagi e dei decessi da Covid-19 in uno Stato. E non solo, riguarda anche questioni politiche più ampie, come il motivo per cui certe democrazie sono diventate più suscettibili alla politica autoritaria», scrive Gelfand nel suo articolo.
La tendenza ad applicare restrizioni di fronte al pericolo, infatti, solitamente indica anche una certa inclinazione di una società al populismo, virus diverso dal Sars-CoV-2. Il populismo amplifica e manipola i segnali di minaccia, e promette di riportare un Paese nell’ordine.
In genere i leader populisti offrono risposta a una domanda del tutto razionale, logica, dei cittadini, una domanda di protezione. Questa esigenza è diventata più forte con la globalizzazione, l’aumento dell’immigrazione e l’accelerazione dell’innovazione tecnologica.
«Gli autocrati populisti si rivolgono a persone diffidenti nei confronti del cambiamento e dell’apparente disordine. Il potere di questi leader si basa su una comprensione fondamentale di come le norme sociali si stringono e si allentano. Alimentando i timori di un Paese disarmato e alla deriva, promettono soluzioni rapide e semplici che riporteranno il Paese nell’ordine», si legge su Foreign Affairs.
A questo punto l’articolo cita dichiarazioni reali di populisti come Donald Trump, Matteo Salvini, Viktor Orban, Marine Le Pen. Ognuno capace di far leva sulle preoccupazioni tipiche del suo Paese, ognuno con la sua dose di populismo.
In Brasile, il presidente Jair Bolsonaro ha descritto il virus come causa di semplici raffreddori; negli Stati Uniti Trump ha detto che il virus sarebbe semplicemente scomparso dopo un po’. Questo atteggiamento ha incoraggiato i loro seguaci a fare lo stesso. In un certo senso, paradossalmente, minimizzare una minaccia può minimizzare anche le contromisure necessarie a respingerla.
«I segnali di minaccia, infatti, possono essere intenzionalmente distorti e manipolati da leader che sono più preoccupati di evitare la colpa e mantenere la propria posizione politica che della salute dei propri cittadini», si legge su Foreign Affairs.
Questi populisti, con le loro dichiarazioni, devono diventare un monito per una società sviluppata e protetta dal populismo: le minacce percepite, reali o meno, possono portare a un restringimento delle libertà personali, sempre in nome della sicurezza e della protezione, ma in alcuni casi si tratta di un’idea sbagliata di sicurezza.
«La pandemia – conclude l’articolo – può essere vista come una prova generale per le minacce future. I governi dei Paesi liberi devono essere preparati a spiegare i rischi ai propri cittadini in modo chiaro e coerente, ricordando che l’inasprimento delle misure durante i periodi di minaccia collettiva è solo temporaneo. Quanto più velocemente una società si unisce di fronte a una minaccia, tanto più velocemente può sconfiggerla minaccia e tornare alla sua amata libertà. Saper maneggiare restrizioni e libertà può consentire ai governi e alle società di sviluppare strategie nazionali e progredire nel tempo. Erodoto ha riconosciuto questi codici culturali diversi millenni fa, ed è tempo che i pensatori e i politici di oggi facciano lo stesso».