I suoi tweet servono per lanciare accuse, veicolare teorie del complotto, sganciare bombe e insulti contro altri Paesi. È implacabile con i suoi obiettivi, instancabile nella presenza online (ma anche offline), rigoroso nella disciplina di partito. Ma viene descritto anche come arrogante, antipatico e meschino. Zhao Lijian è senza dubbio tutto questo, ma è soprattutto l’uomo di punta della nuova diplomazia cinese, che ha scelto di essere più aggressiva, non solo nelle decisioni ma anche nei toni.
Il suo profilo, raccontato in questo stupendo articolo del New York Times Magazine, permette di leggere, in filigrana, l’evoluzione della politica di Pechino e, in generale, l’orgoglio crescente di una intera popolazione. Nel giro di pochi anni l’approccio soft nei rapporti internazionali, consolidato dalla filosofia del basso profilo e della cooperazione voluta da Deng Xiaoping, ha cominciato a erodersi. Il nuovo corso di Xi Jinping, che punta a essere terzo – dopo Mao e dopo lo stesso Deng – nella storia della Cina moderna, va invece in direzione della forza. Pechino è diventata libera e ricca. Ora bisogna mostrare che è anche potente: il linguaggio dei rapporti con gli altri Paesi, per prima cosa, deve adeguarsi e dimostrarsi assertivo.
È l’ennesimo riflesso della sua politica di svecchiamento delle istituzioni, che dal 2013, cioè da quando ha preso il potere, è passato attraverso una pesante lotta alla corruzione interna (buona anche per sbarazzarsi di qualche rivale) e si è formulato intorno a una nuova visione della Cina. Il Paese non è più debole. Non deve più subire le angherie e i soprusi storici degli avversari di sempre. Adesso merita rispetto e considerazione. Anche di più: adesso ha il diritto di dettare il tono dei rapporti diplomatici internazionali. Anche questi, in poche parole, devono avere “caratteristiche cinesi”.
Zhao Lijian è l’uomo giusto al momento giusto. Il suo strumento di battaglia è Twitter (cosa singolare, visto che in Cina è proibito) di cui ha aperto un account nel lontano 2010 mentre era a Washington come segretario della sezione politica dell’ambasciata cinese in America (all’epoca aveva 38 anni).
All’inizio non lo usava molto. I tempi non erano maturi e lui era ancora impegnato nelle tappe della sua carriera. Entrato nel ministero degli Affari esteri nel 1996 – ancora considerato il ministero più “debole” per i toni felpati usati nei confronti degli stranieri, tanto da venire inondato di lettere contenenti bustine di calcio (il messaggio era: fatevi la spina dorsale) – viene spedito in Pakistan nel 2003 come attaché dell’ambasciatore. La nomina è importante, vista la grande amicizia tra i due Paesi. Islamabad è stato uno dei primi Paesi non-comunisti a puntare sulla Cina e già negli anni ’50 aveva abbandonato il riconoscimento del governo in esilio a Taiwan in favore della Repubblica popolare cinese. Dal canto suo, Pechino considera il Pakistan «un fratello di ferro», unito da una amicizia «più alta dell’Himalaya, più profonda del mare più profondo del mondo e più dolce del miele».
È anche il luogo da dove può esercitare il suo confronto a distanza con gli Stati Uniti, impegnati in una sanguinosa e poco fruttifera guerra in Afghanistan e poi in Iraq. Il dispiego di potenza da parte di Washington, insieme alle spese enormi, costituivano uno dei temi di maggiore interesse per il governo cinese, impegnato a studiare quello che considerava già il suo futuro avversario. Per coglierne i punti deboli e, soprattutto, non riprodurne gli errori.
Con il Pakistan era facile. Gli apprezzamenti delle autorità cinesi per la lotta al terrorismo condotta da Islamabad erano molto apprezzati, soprattutto se confrontati con la freddezza dimostrata dagli americani. Non è un caso che, nel 2015 – quando Zhao torna in Pakistan, a un livello più alto – il Paese è già diventato il punto di snodo iniziale della sua Via della Seta, il progetto di megalopoli e di reti di trasporti che, attraversando l’Asia, vuole raggiungere l’Europa sottraendola, a poco a poco, alla sfera di influenza americana.
Zhao lavora a ritmi indefessi, si fa notare perché viaggia ovunque nel Paese, si fa conoscere (e apprezzare) dalla stampa per la precisione dei dettagli che fornisce (evitando la fumosa retorica dei diplomatici) e, soprattutto, si fa ricordare perché comincia a twittare.
All’inizio si trattava di messaggi diretti, ma non offensivi. Poi, dopo qualche mese, comincia a postare vignette anti-americane, attacchi contro la politica obamiana in Pakistan, denunce degli attacchi con i droni, e informazioni sui progetti cinesi nel Paese. Nel giro di pochi mesi diventa seguitissimo, i follower arrivano a 200mila e decide di aggiungere “Muhammad” al proprio nome (poi lo toglierà). Non si sottrae agli scambi, va incontro alle tenzoni e ne esce, con carattere e decisione, vincente.
Il suo modello di comunicazione – assertivo, netto e senza complessi – piace ai vertici, che decidono di richiamarlo e affidargli posizioni sempre più importanti. Nel 2019 lui a guidare una vera e propria offensiva mediatica contro le proteste di Hong Kong. Nel luglio dello stesso anno difende la politica cinese sugli uiguri, accusando l’America di ipocrisia: «Se sei a Washington D.C, sai benissimo che i bianchi non vanno mai nella zona a Sud-ovest perché è per neri e latini. C’è un modo di dire: “black in & white out”, che significa che quando una famiglia nera entra in un quartiere, i bianchi se ne vanno e i prezzi delle case crollano».
La sua esperienza personale lo aveva convinto delle contraddizioni insanabili del modello statunitense (del resto esplose nel 2020) e della bontà, al contrario, del sistema cinese. Nel giorno del Ringraziamento in un tweet ringrazia l’America «per avere buttato trilioni di dollari in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria». Non solo: vista la loro storia di discriminazione e razzismo, gli americani prima di giudicare i cinesi dovrebbero guardarsi allo specchio, «ma non prima di andare a dormire: avrebbero gli incubi». Uno stile trumpiano.
Gli effetti di questo stile sono ambigui. Da un lato, quello interno, Zhao è un mito. Incarna il sogno di riscossa cinese. Dall’altro, quello esterno, ha avuto ricadute pesanti. La Cina piace sempre meno, il suo ruolo ambiguo durante la pandemia ha oscurato la sua immagine e la posizione arrogante della sua nuova diplomazia contribuisce solo ad alienare le simpatie degli altri Paesi, soprattutto quelli che nutrono motivi di risentimento (in prima fila: l’Australia).
Il punto però è che a Pechino essere amato non importa più. Quello che conta, ha realizzato, è essere temuti. E se molti Paesi, come il Giappone e soprattutto la Corea del Sud puntano sul soft power per accattivarsi riconoscimenti e aprire nuove strade politiche e commerciali, la Cina ha deciso che, nel momento del dunque, importa solo l’hard power. E i suoi nuovi toni ne sono una dimostrazione.