Il «caso interessante»I limiti e l’originalità della cultura liberale italiana

Nel suo libro uscito per Rubbettino, Raimondo Cubeddu, uno dei massimi studiosi della materia, ricorda che la contraddizione principale del liberalismo fu l’idea di coinvolgere lo Stato. Una scelta che avrebbe portato a più regolamentazioni e meno libertà

di Alexander Sinn, da Unsplash

Come scrive un suo critico, Strauss, il liberalismo è «il tentativo di risolvere il problema politico tramite mezzi economici» o, con altre parole, un tentativo di ridurre (o addirittura di risolvere) l’incertezza e la scarsità, inesauribili fonti di conflitti, tramite l’economia di mercato concorrenziale e la rule of law.

Esso si fonda sulla teoria dei diritti naturali (vita, libertà e proprietà), sulla separazione tra sfera privata (che comprende anche la religione) e sfera pubblica (quella inerente all’identificazione, la produzione e la distribuzione dei beni pubblici), sulla teoria della divisione e del bilanciamento dei poteri finalizzata a una riduzione del potere e su una Costituzione intesa come garanzia delle libertà individuali.

Il liberalismo, quindi, poiché mira a una progressiva diminuzione delle scelte collettive, conduce una serrata battaglia contro ogni tipo di monopolio, fiducioso negli effetti benefici per l’intera società della concorrenza e della ricerca individuale della felicità e della conoscenza. Esso si fonda quindi sui property rights e, nella convinzione che gli incentivi individuali si trasformino presto in pubblici benefici, richiede istituzioni inclusive.

Il liberalismo italiano, per una serie di motivi, coltivò soltanto alcuni degli ideali del liberalismo classico. Anzi, generalmente, pensò che essi potessero essere realizzati tramite l’intervento dello Stato, magari di uno Stato ispirato, anche in un regime liberaldemocratico, da alti e nobili ideali etici.

In breve, esso non comprese che ciò avrebbe comportato più politica, e quindi più scelte pubbliche, e meno libertà; vale a dire che la produzione politica del diritto, della moralità e del benessere non avrebbe prodotto la società buona ma soltanto maggiore incertezza. E continua a pagarne il conto.

Il suo dramma può essere riassunto in due tesi di Antoni e di Leoni, entrambe degli anni Cinquanta. Nel 1955, nel saggio Una polemica illustre, apparso su «Il Mondo», Antoni scriveva che il rapporto tra liberalismo e liberismo è una

questione di natura universale ed è una di quelle che travagliano la civiltà del nostro tempo, [che] è stata dibattuta da noi nei modi e nei termini propri della nostra tradizione. Ancora una volta, cioè, il pensiero italiano ha mostrato il suo peculiare interesse per la distinzione delle attività dello spirito umano.

Ma già nel 1950, in “Il nostro compito”, saggio di presentazione della rivista «Il Politico», Leoni aveva scritto che era giunto il momento di porre termine alle vecchie distinzioni tra politica, economia e diritto e che era ormai il caso di guardare a queste discipline in una prospettiva nuova.

Era perciò necessario trovare un punto di integrazione tra i diversi punti di vista tale per cui «l’economia apparirà allora né più né meno di un ramo della scienza politica, mentre la giuridica […] apparirà essere altro importantissimo ramo della scienza politica».

Indubbiamente Antoni centra il problema fondamentale della storia del liberalismo italiano e lo sviluppo dell’ideologia liberale che si manifesterà in quegli anni nel mondo, sperimenterà (con risultati non pari alle speranze) la possibilità di coltivare gli ideali di libertà in quella che allora era definita “economia mista”.

Antoni però, enfatizzando, scambia una situazione storica con un’acquisizione dell’italico pensiero; mette in campo una sorta di revival della presunta missione addirittura universale assegnata dalla storia all’Italia, una missione che aveva nutrito cuori e menti, quando non la prassi politica, di protagonisti del Risorgimento e di loro epigoni, e la cui mancata realizzazione era alla radice della crisi del liberalismo italiano incapace di realizzare l’impossibile missione o qualcosa di altrettanto significativo.

Ma Leoni non aveva affatto torto a sostenere che per il liberalismo le rigide differenziazioni e separazioni tra le discipline andavano riviste se non eliminate, e che la speranza di poter coltivare la libertà individuale in un sistema istituzionale in cui l’economia era diretta dalla politica era illusoria e si sarebbe risolta in una diminuzione delle libertà individuali e in un incremento delle scelte collettive.

Se soltanto si pensa a quell’integrazione dell’analisi economico-politico-giuridica che si svilupperà nelle scienze sociali nella seconda metà del XX secolo (e di cui Leoni può essere considerato un precursore), si comprende l’acume delle posizioni da lui tempestivamente assunte.

Ma ciò porta a dire che quello del liberalismo italiano è proprio un «caso interessante».

Croce, in un certo senso, anticipa Keynes e i Liberals, mentre il liberale classico Leoni, il quale si muove in sintonia con i suoi amici della Scuola Austriaca, anticipa Ronald Coase, i neo-istituzionalisti e pure i Libertarians.

Con tutti i rischi del caso si potrebbe allora riassumere la vicenda del liberalismo italiano dicendo che si tratta di un confronto tra pensatori che credono di poterlo arricchire attingendo ad altre filosofie politiche, e pensatori che riflettono sui problemi teoretici del liberalismo e sui suoi massimi esponenti.

Infatti – ed è quasi superfluo ribadirlo –, per quanto già alla fine del XVIII secolo pensatori italiani (ad esempio Cesare Beccaria, Gaetano Filangieri, Antonio Genovesi, Pietro Verri, e altri) avessero formulato idee che sarebbero state assorbite nel corpus dottrinario del liberalismo, esso non nacque in Italia e non vi annoverò tanto filosofi politici che lo innovassero in maniera significativa quanto una discreta quantità di pensatori politici che rifletterono sulle vicende e sui problemi italiani.

da “La cultura liberale in Italia”, di Raimondo Cubeddu, Rubbettino, 2021, pagine 370, euro 24

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