Caleidoscopio conservatoreC’è spazio per spezzare l’egemonia nera sulla destra italiana?

Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni (ma non solo) non riescono a tagliare il cordone ombelicale che li lega al fascismo e ai suoi epigoni: in questo modo si posizionano a mille anni luce di distanza da chi, nello stesso campo, si definisce liberale, europeista e democratico

Pexels

Ci sono i fascisti che rialzano la testa, ammesso che l’abbiano mai abbassata, che adesso si travestono da No vax e fanno a botte con la polizia, menano i giornalisti, minacciano i medici, rovesciano un gazebo del Movimento 5 stelle a Milano, s’infiltrano ovunque sia possibile, le facce sono sempre quelle che conosciamo dagli anni Settanta anche se questi di oggi saranno i loro nipoti.

Cara Polizia, cara Magistratura, gentile ministra Lamorgese, sarebbe ora di cominciare a reprimere questa violenza, ma sul serio. Queste “manifestazioni” non vanno consentite e i violenti vanno fermati, punto.

A mille anni luce di distanza c’è invece una destra che si autodefinisce “buona”: liberale, europeista e democratica. L’ennesimo benemerito tentativo non di darsi la solita ripulita ma di trovare le ragioni antiche di un conservatorismo moderno, pienamente dentro la storia delle idee costituzionali e democratiche: l’ultimo conato fu quello di Gianfranco Fini con “Futuro e libertà”, progetto sfasciatosi contro una casa di Montecarlo e peripezie varie. Oggi ci riprova uno che c’era anche allora, Filippo Rossi, con la sua “Buona destra”, che pare voler muovere una piccolissima Opa su un certo ceto intellettuale alla ricerca di una collocazione che non sia assimilabile alle vecchie esperienze.

Il fatto che a Roma “Buona destra” abbia optato per Carlo Calenda indica una forte propensione a sganciarsi dagli schemi tradizionali, quelli, per intenderci, che hanno consigliato a Fratelli d’Italia di candidare un destrorso old style come Enrico Michetti, laddove il progressista Calenda evoca un molto maggiore dinamismo programmatico e politico: è un esempio, ci pare, di una concezione lontana dalla chiusura stagnante della destra politica italiana.

Tra il neofascismo e queste pur minoritarie pulsioni liberali c’è il partito di Giorgia Meloni, sospinto dai sondaggi (quanto veritieri?) che non si capisce bene se rappresenti un fatto politico di longue durée o una effimera bolla mediatica: ce lo dirà la storia.

Tre destre, si potrebbe concludere (ma forse sono anche di più), tutte richiamantesi ad un concetto che sta persino diventando più gassoso di quello, speculare, di “sinistra”, inafferrabile una stella cadente, un caleidoscopio che va dall’europeismo di Ventotene al sovranismo di Orbán, un alambicco da cui fuoriescono i dottor Jekyll cavourriani-einaudiani e i Mr. Hyde rautiani, un labirinto in cui si perdono De Maistre e Aron, Mussolini e Longanesi, braccia tese e legge Scelba.

C’è spazio, in questo ginepraio, per recuperare il meglio della tradizione intellettuale e politica del conservatorismo liberale, cioè per spezzare l’egemonia “nera” sulla destra italiana?

Perché il tema è sempre quello. Di una destra non solo non fascista ma antifascista e antisovranista (essendo il sovranismo de’ nostri giorni l’ultima incarnazione di un certo modo tendenzialmente fascista di vedere il mondo). Ci vorrebbe un po’ di chiarezza. Soprattutto – va da sé – da parte di Fratelli d’Italia, i discendenti del Movimento Sociale almirantiano cui i meloniani si riconnettono “saltando” il percorso, peraltro fragile, di Fini, se non altro per una certa postura intellettuale (e, se si può così dire, mimica) della sua giovane leader, ben poco disposta ad accostarsi alla questione della revisione e dell’autocritica e invece incline a evocare i tratti di continuità con la tradizionale storia nera.

Il sospetto di una “doppiezza” meloniana non è facilmente dissipabile dato che la leader di Fratelli d’Italia non condanna mai – se non se vi è proprio trascinata per i capelli – gli episodi di violenza nera, preferendo sorvolare e fischiettare, su questo come più in generale sul rapporto con il fascismo italiano, celato dentro la categoria più comoda dell’autoritarismo.

È come se Giorgia avesse paura di perdere i voti che tra i fascisti duri e puri vanno ancora a Fratelli d’Italia. Tipo quelli di molta gente di CasaPound, e forse persino di Forza Nuova che pure ne detestano l’accasamento istituzionale.

È un cordone ombelicale nero che non si spezza definitivamente. Il che non vuol dire – già sentiamo le solite litanìe – che Fratelli d’Italia sia un partito fascista: vuol dire solo e semplicemente che la leadership di Giorgia Meloni punta a acchiappare di tutto, il borghese sistemato e il sottoproletario inviperito, il conservatore tranquillo e lo squadrista invasato. Una “doppiezza” che a lungo andare potrebbe rivelarsi fatale che l’Europa – tanto per capirci – annusa al volo.

In questo quadro, l’assunzione di Viktor Orbán a punto di riferimento fortissimo di Fratelli d’Italia rischia di costituire una pietra d’inciampo non da poco. Il muro teorico e reale ungherese-polacco nei confronti dei profughi afghani cozza non solo con tutte le correnti politiche ma contro un comune sentire dei popoli europei, specie quello italiano. La sensibilità, infatti, sta cambiando. Gli anni del “dàgli agli immigrati” sono superati dalla tragicità degli avvenimenti internazionali, come ha magnificamente colto Sergio Mattarella, e perfino Salvini in una certa misura se ne sta accorgendo, e soprattutto il camaleontico Giuseppe Conte, che ha rinnegato i decreti sicurezza del suo primo governo.

Resta lei, Giorgia, a fare l’orbaniana pura. Un errore isolarsi anche su questo punto. Che lascia spazio a chi, di destra, cerca altri lidi: quelli che Silvio Berlusconi non riuscì o non volle coltivare.

E infatti scrive Filippo Rossi con un j’accuse molto bello: «Possibile che la destra che ha in testa Giorgia Meloni sia ormai davvero così meschina, così chiusa, così egoista? Così tristemente attaccata alla “roba”, come in quella nota novella di Giovanni Verga che evidentemente non le ha insegnato nulla? Possibile che di fronte a una tragedia umanitaria così enorme, di fronte al fallimento di un Occidente che ha prima illuso e poi tradito tanti afghani, la risposta della “Giorgia cristiana” sia tanto terra terra, tanto bassa, tanto squallida e strisciante da non tentare nemmeno di librarsi in cielo per vedere al di là dei muri che lei stessa, evidentemente, ha costruito attorno al suo bunker politico?».

Ecco, l’immagine del bunker rende bene l’idea di una politica isolata, chiusa, egoista, autoreferenziale, cieca. È il segno del rinculo di una destra tardo-missina, con l’inevitabile ingrediente para-fascista, nell’ancestrale bozzolo da cui non riesce a uscire come crisalide e poi farfalla per librarsi nella politica libera e democratica. Ecco perché Giorgia Meloni, malgrado le fotografie photoshoppate che la fanno sembrare Emmanuel Béart, evoca un film già visto – eccome! – quello di una destra che fa tuttora della nostalgia il proprio avvenire, che in politica non è mai una cosa che funziona.