In questo museo d’ombre non può mancare una sala: quella dedicata alle donne, scrittrici e intellettuali. Mica per confinarle in un ghetto, in quella “stanza tutta per lei” che rappresenta una conquista sacrosanta purché non sia il potere maschile a custodirne la chiave, e il critico in vestaglia da pater familias a scriverne in una nota a piè di pagina. Ma perché all’appello rispondono in poche, più che mai conculcate in quel ventennio da un regime ottusamente maschilista, dalla tronfia fallocrazia fascista. E quasi nessuna – una sola, lo vedremo – poté contendere a tu per tu col Leviatano.
Ma come non citare, fra le poche che erano riuscite ad emergere, Ada Negri, sensibilissima poetessa e romanziera, anche lei traghettata dal socialismo al fascismo, dalla “sorella ideale” Anna Kuliscioff al premio Mussolini e all’Accademia d’Italia?
E si dovrebbe dire pure d’una grande narratrice come Grazia Deledda, che in realtà guardava più ai miti ancestrali della sua Sardegna e alla lezione dei grandi romanzieri russi che alle misere cronache di casa nostra, ma Pirandello sospettava che Mussolini avesse brigato per il conferimento a lei del Nobel, anziché a lui; e lei stessa in un romanzo s’era lasciata scappare un «Da quando c’è lui tutti si vive in pace», e in un sussidiario per le elementari una stringata celebrazione della marcia su Roma.
O ancora Annie Vivanti, scrittrice più ragguardevole di quanto ancora non si creda, che alle tante cause da lei perorate, dall’Irlanda all’Egitto, malauguratamente aggiunse in tarda età quella del fascismo e del suo duce.
Ma si trattava per lo più di oboli al santo del giorno, maldestramente offerti da donne distinte dalla sublime indifferenza al truce “spirito dei tempi”. Oppure di foschi scenari di cronaca nera, come quello che coinvolse Amalia Guglielminetti, degnissima scrittrice da liberare tanto dall’aura gozzaniana quanto dalla sinistra eco di quel fattaccio che la fece dichiarare da un tribunale nel 1929 inferma mentale, per aver brigato con i gerarchi del regime e la polizia politica allo scopo di mandare al confino il suo ex amante Pitigrilli.
Oggi nuove edizioni delle sue opere, come le novelle raccolte nel ’31 in “Tipi bizzarri”, ne rivalutano l’«intelligenza radicale, lucida, livida e perfino spietata» (Silvio Raffo); e meriterebbe qui, perciò, “a room of one’s own”, non fosse che per sua fortuna anche lei si sottrasse a plateali manifestazioni di consenso o addiritturadi propaganda.
Più complesso il caso di Sibilla Aleramo, acclamata protofemminista ma pronta all’abiura, visitatrice di tutte le avanguardie, firmataria del manifesto degli intellettuali antifascisti ma poi fascista pare per fame e tuttavia prodiga di pronunciamenti infervorati, infine accolta a braccia aperte nel dopoguerra da Togliatti. E riabbracciata dai movimenti femministi, grazie anche a un rinnovato successo editoriale. Storie di ordinaria fragilità, o di stringente necessità, o ancora di distratta o rassegnata acquiescenza.
Ancora diverso è il caso di Paola Masino, la compagna di Bontempelli, brillante intelligenza al centro della vita mondana e letteraria, poi invisa al potere così come lo fu il movimento artistico novecentista, infine antifascista ed esule; e autrice d’un acerbo romanzo sperimentale come Periferia, il cui “urlo” abbiamo ascoltato in un capitolo precedente, e soprattutto di un romanzo geniale come “Nascita e morte della massaia”, che apparso a puntate su un settimanale non uscì in volume fino alla Liberazione, perché sgradito al regime: ne parleremo più avanti.
Al nostro tortuoso itinerario sulle tracce di aperte compromissioni o quanto meno di liete convivenze, giova piuttosto imboccare altre vie, su cui altre stanze s’affaccino. Finora non si è dato il caso d’incontrare una figura che non solo si fosse assunta l’intera responsabilità di una scelta, ma che l’abbia vissuta da protagonista: ebbene, quella figura la troviamo proprio tra le scrittrici. È una grande donna, della quale già dagli anni Trenta fino a un passato recente sembrava essersi persa la memoria, perché ugualmente invisa al fascismo affermato e poi all’antifascismo vincente. In tempi di doverosa riscoperta di tante importanti figure femminili ingiustamente trascurate, non so fino a che punto studiosi e studiose, e appassionati dei gender studies, abbiano restituito il meritato posto di primo piano a una intellettuale e organizzatrice culturale che fu assoluta protagonista nel Novecento europeo delle arti figurative e delle avventure politicoculturali.
Parlo di Margherita Sarfatti, e vedo già inarcarsi qualche sdegnato sopracciglio. E già, perché l’inventrice di «Novecento», l’amica e promotrice dei più geniali e innovativi artisti europei in Italia come a Parigi, dopo un passato sovversivo tra socialismo e anarchia fu originariamente e originalmente fascista, e per di più biografa e amante del duce. Dal quale tuttavia fu liquidata, fino a dover scappare dall’Italia – lei di autorevole famiglia ebraica – quando furono promulgate le leggi razziali (e una sua sorella morirà ad Auschwitz).
Ma quel legame non le viene perdonato da chi si ostina ancora a non intendere gl’intrecci, letali ma generosi, tra gli “astratti furori” delle più disparate sovversioni novecentesche, e a ignorare tra le altre la fonte anche artistica, letteraria, creativa di tanti cruenti azzardi, la repentina mutazione di avvincenti fantasticherie in avvilenti prigionie. Da chi si ostina a non elaborare i lutti della memoria, da chi negli anni Sessanta e Settanta con ideologica albagia considerava ancora la monumentale ricerca storiografica di Renzo De Felice sul fascismo e il suo duce alla stregua di una dissimulata apologia se non addirittura di una mascalzonata.
Margherita svezzò il giovane socialista Mussolini, rampante e plebeo, nei salotti milanesi, con lui concepì l’approssimativa ideologia originaria e più l’apparato mitologico del fascismo, anzi ebbe a dichiararsene principale artefice, con lui visse le iniziali vicende del movimento e i primi anni del regime, fin quando da lui fu duramente rinnegata: già nel ’29, con un’aspra lettera pubblica in cui il duce sconfessava con virulenza le iniziative assunte in prima persona da Sarfatti e soprattutto quella pittoricoletteraria di «Novecento», da lei ideata e organizzata, proibendole di annettere quell’avventura eccentrica e di innovativo respiro europeo al fascismo, frattanto attestatosi su posizioni tradizionaliste e autarchiche.
Quanto dell’aristocratica formazione intellettuale ed estetica di Margherita, delle sue letture e frequentazioni, del suo ricco e colto immaginario, abbia permeato la coriacea scorza del malmostoso direttore dell’«Avanti!» e poi del dispotico soppressore della democrazia parlamentare, ma soprattutto sia confluito nella liquida sostanza del fascismo aurorale, nel marchingegno dei suoi miti e dei suoi riti, è difficile stabilire. Ma se ne può trovare qualche indizio, se non nella tarda autobiografia di Sarfatti (“Acqua passata”, 1955), dove il termine «fascismo» ricorre una volta sola e troppo di quei dolorosi ricordi è stato rimosso, piuttosto nel famigerato “Dux”, la biografia del condottiero da lei redatta allo scopo di esportarne il mito all’estero, e perciò pubblicata prima in Inghilterra (“The life of Benito Mussolini”, 1925) e l’anno successivo in Italia con quel titolo squillante, intimidatorio.
Un’opera poco letta, quel “Dux”, anzi decisamente negletta a causa del suo intento celebrativo; e che esige di essere attentamente rivisitata, non solo perché tutt’altro che priva di pregi d’intelligenza e di stile, ma perché proprio se analizzata come opera letteraria può rivelare donde nasca e come sia stato allestito quel trovarobato di simboli, di accorte invenzioni, di scenari di cartapesta, di figure retoriche da convertire in parole d’ordine, cui il movimento e il regime da piazza San Sepolcro a Salò incessantemente attinsero.
da “Scrivere a destra. Vite narrate e vite perdute nel ventennio nero”, di Antonio Di Grado, Giulio Perrone editore, 2021, pagine 300, euro 18