Tra i numeri del PNRR e i progetti di riforma per rilanciare l’Italia emerge, dal profondo, un piano molto più ampio e ambizioso: cambiare il corso delle politiche economiche europee e influenzarne lo spirito fino a ribaltare quello che, ancora a metà 2020, era un dogma intoccabile. Al posto di una filosofia conservatrice in ambito fiscale, che badava più alla stabilità (e alla sottrazione dell’intervento statale), potrebbe imporsi un nuovo paradigma che promuove la solidarietà tra vicini e una maggiore propensione al rischio fiscale.
Non è una cosa da poco, ma proprio questo spiega la decisione con cui il presidente del Consiglio Mario Draghi è intervenuto nella definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, aggiungendo ai 69 miliardi a fondo perduto decisi a livello europeo, che saranno distribuiti tra il 2021 e il 2026, anche 13 miliardi di sussidio e 150 miliardi di prestiti, gran parte dei quali dalla stessa Unione Europea. Per un totale di 235 miliardi, da investire nella ripresa post-pandemica ma, soprattutto, nel rilancio dell’economia del Paese.
Come spiega Jean Pisani-Ferry su Project Syndicate tutta l’operazione andrebbe vista come un secondo «whatever it takes» di Mario Draghi. In cui, di nuovo, si punta a ridefinire la linea di pensiero economico europeo, ma stavolta passando attraverso l’Italia.
L’obiettivo è di nutrire una ripresa fondata sulla modernizzazione, chiudendo il lungo periodo (quasi vent’anni) di stagnazione economica con una politica di crescita fatta di investimenti pubblici in aree ad alto impatto di sviluppo. È la scommessa di questo tempo: ribaltare l’approccio finora dominante in Europa, basato su prudenza fiscale e massima attenzione alla stabilità di bilancio. Una politica che, in tempi di emergenza e rallentamento, non può più tenere.
Mario Draghi non è il solo a pensarlo, ma è uno dei pochi che ha scelto di agire di conseguenza. A condividere la stessa impostazione, del resto, c’è il presidente americano Joe Biden. Anche lui, dall’altra parte dell’Oceano, è convinto che il vero rischio, al momento, sia di fare troppo poco anziché di fare troppo.
Non sarà però una cosa semplice. Come spiega Project Syndicate, a ostacolare il percorso di Draghi ci sono almeno tre problemi. Il primo riguarda l’allocazione delle risorse. La spesa, secondo i dettami dell’accordo europeo, deve essere efficiente e portare a risultati concreti, senza perdersi nella tradizionale strada degli sprechi italiana, spesso coltivata da interessi della politica minore. In questo senso, Draghi ha definito alcuni macrotemi principali e incaricato il ministero dell’Economia di controllare la destinazione degli investimenti. Il vero rischio sta tutto nel 40% del totale che viene destinato al Sud Italia, dove i sussidi, i piani e i progetti (spesso a causa di una politica clientelistica e della forza dei clan mafiosi) hanno, dal punto di vista storico, sortito pochissimi effetti.
Il secondo problema riguarda le riforme, incluse con il pacchetto di finanziamenti. Si tratta di misure specifiche per ogni Paese e richiedono un certo impegno, non solo istituzionale, per essere attuate. Draghi ha concentrato gli obiettivi su tre piani: quello della giustizia (su cui ha già operato un importante cambiamento), quello della competizione e quello della pubblica amministrazione, con la sua modernizzazione.
Il terzo, invece, riguarda i mercati: sceglieranno di dare fiducia all’impostazione pensata da Draghi – cioè una sterzata delle politiche economiche – favorendo l’idea che lo sviluppo venga causato dalla spesa pubblica? Al momento sembra di sì: l’Italia ha già il debito pubblico più alto, rispetto al Pil, di tutta Europa (tranne la Grecia) e il piano di Draghi porterebbe ad aumentarlo. Tuttavia, se si tratta di spesa per investimenti (la cosiddetta “spesa buona”) la scommessa di Draghi è che i mercati avranno fiducia e ricompenseranno lo sforzo italiano. Del resto il problema del debito italiano, da quasi 30 anni, non deriva da negligenza fiscale (almeno recente) ma da una questione di produttività. Rilanciare questa significherebbe attutire il peso del primo.
La vera domanda, insomma, è molto semplice: ci riuscirà? La risposta si avrà nei prossimi anni e sarà decisiva, non solo per la sorte del denaro investito dall’Italia, ma anche per la possibilità di rivoluzionare le posizioni europee in materia di spese comuni. Draghi, anche grazie all’autorevolezza conquistata nella sua carriera, è la persona giusta per portare avanti questo disegno. La vera incognita sarà capire se riuscirà a evitare tutte le trappole, piccole e grandi, di cui è disseminata la strada e che i suoi avversari non esitano a piazzare.