Ecco dunque l’idea di un “accordone” tra tutte le forze politiche dell’attuale maggioranza (la Meloni ormai è fuori da tutto): eleggere Draghi al Colle alla prima votazione e risolvere la crisi con un nuovo governo-fotocopia fino alle elezioni del 2023. Sarebbe stato individuato anche il presidente del Consiglio nella persona di Daniele Franco, l’attuale ministro dell’Economia, per suggellare il massimo della continuità con l’attuale esecutivo e assicurare piena sintonia fra Colle e palazzo Chigi. Sarebbe di fatto una sorta di semipresidenzialismo alla francese, con un Capo dello Stato che governa attraverso il Primo ministro.
Draghi al Colle – si ragiona – sarebbe l’uovo di oggi, migliore della gallina di domani: porrebbe il sistema al riparo di qualunque scossa nel caso di vittoria elettorale della destra, garantirebbe all’Europa quella credibilità italiana che occorre per realizzare il Piano di resistenza e resilienza. È chiaramente un discorso che viene fatto a sinistra. Ma a parte il fatto che non si capisce perché la Lega dovrebbe condividere un ragionamento “anti-Lega”, ci sarebbe anche da domandarsi perché Mario Draghi, che è uomo da unità nazionale, dovrebbe voler salire al Colle con la prospettiva di una “coabitazione” – direbbero i francesi – in un percorso tutto in salita, da subito, in lotta contro un governo antieuropeo.
Ma il punto veramente debole sta soprattutto nel fatto che un “accordone” di questa portata non potrebbe essere garantito da nessuno: chi potrebbe giurare che a Camere riunite non spunterebbe un nutrito gruppo di vario colore, non convinto della realizzabilità dell’accordone, pronto a impallinare l’attuale presidente del Consiglio? Chi, in altre parole, potrebbe assicurare col sangue che il Parlamento non diventi la tonnara già vista nel 2013 ai danni prima di Franco Marini e poi di Romano Prodi?
E bisogna chiedersi cosa significherebbe per l’Italia una clamorosa caduta di Draghi, cioè l’uomo sul quale l’Occidente conta, fulminato dai franchi tiratori? Le conseguenze economiche potrebbero essere drammatiche (spread) senza contare che Mario Draghi a quel punto sarebbe fuori dai giochi politici – egli non è Amintore Fanfani o Giuli Andreotti, che fallito l’obiettivo del Colle restavano in campo – e quindi inservibile per la guida del governo? Il disastro sarebbe competo, l’Italia non lo avrebbe né al Quirinale né a palazzo Chigi. Il Pd pare sensibile a questi timori.
Questi sono i ragionamenti, tra gli altri, che si fanno nel triangolo Quirinale-palazzo Chigi-Montecitorio. Ragionamenti preoccupati di trarre il Paese dall’emergenza sanitaria e economica che ancora l’attanaglia e che solo un uomo forte può affrontare. È chiaro che il sottotesto di questi discorsi rinvia alla debolezza della politica: se ci fossero partiti solidi e affidabili, qualunque operazione si potrebbe fare. Ma il Parlamento, che è sempre stato una brutta bestia, adesso è davvero un mostro indecifrabile. Ed è sempre lui, alla fin fine, a decidere.