Che cosa diremo di quella volta che siamo stati bene al ristorante? Che abbiamo mangiato bene, naturalmente. Perché al ristorante si va per mangiare, possibilmente bene e in buona compagnia. Se però credete che il vostro benessere a tavola in un locale sia solo merito della cucina vi sbagliate, e di grosso anche. Il servizio, le luci, i profumi nell’aria, gli arredi, le sedute, e, perché no, persino le toilettes, sono i tanti piccoli grandi dettagli che contribuiscono a creare la giusta atmosfera e che rendono memorabile la serata – assieme al cibo naturalmente.
Il ristorante è come un palcoscenico sul quale ogni giorno, anche due volte al giorno, va in scena uno spettacolo. Lo chef è il cantante, i suoi piatti sono musica per le papille, ma senza tutto il resto che potremmo riassumere in ambiente e servizio, quell’esperienza diventa come un soufflé lasciato per troppo tempo al pass: si affloscia irrimediabilmente.
In un’edizione di tre anni fa di Identità Golose, uno dei contemporanei patriarchi della ristorazione, Arrigo Cipriani, elogiava la tovaglia di lino, stigmatizzava gli arredi scomodi e rivelava qualche piccolo segreto dell’Harry’s bar di Venezia: il pavimento è riscaldato a 19 gradi, il marmo a Venezia arriva anche a 5 gradi, raccontava, nessuno se ne accorge ma fa stare bene, se ne accorgono solo i cani che si sdraiano per terra.
Senza tanti giri di parole il nocciolo della questione torna a essere lo stare bene a tavola, anche al di là del cibo.
Escoffier riteneva che già la lettura del menu doveva risvegliare tutti i sensi, scriverlo adeguatamente richiedeva una cura, un’attenzione e una cultura non indifferenti che solo un cuoco che è stato anche uomo di cultura come Auguste Escoffier (ma come non pensare anche a Gualtiero Marchesi?) poteva permettersi.
Tutto questo fino a quando le cose vanno per il verso giusto. Ma in caso di incidenti, errori o eventi imprevisti dalla cucina? Cosa succede in situazioni di stress test? Il fronte, la prima linea rispetto al cliente come spiega, come motiva o, semplicemente, come è in grado di reagire? La qualità e la professionalità di un servizio si misurano anche da questo: nervi saldi, prontezza di reazione e un pizzico di fantasia per andare oltre le scuse di rito, proponendo una piccola consolazione in grado di far dimenticare quello scivolone.
Non è vero che un errore può rovinare una serata, è vero il contrario: di fronte a una sbavatura la reazione per rimediare trasforma l’incidente in una conferma del livello del servizio.
Errare è umano, rimediare con stile è divino.
La narrativa sugli strafalcioni a tavola è ampia, vediamo le casistiche più comuni con aneddoti realmente accaduti.
1. L’intruso nel piatto
Tutto ciò che finisce nel piatto dovrebbe essere edibile, altrimenti il cliente va avvisato. Tuttavia, può capitare l’intruso.
L’elemento non edibile, non richiesto e non previsto… Siamo talmente abituati a picchi di creatività estemporanee che mangeremmo anche le stoviglie, se ci dicessero che sono un messaggio dello chef contro lo spreco di detersivi per i piatti. Capita quindi che un dolcetto finale, una caramella avvolta in una carta che è davvero carta, viene accompagnata da scandite e ripetute raccomandazioni a non ingerire la carta perché di carta si tratta e non di qualche trasformazione chimico-alimentare che ne imita aspetto e consistenza.
Poi però capita di ritrovare qualcosa che non dovrebbe esserci nel piatto. L’esempio tipico è la lisca di pesce, o quel piatto di molluschi perfettamente sgusciati dove fa la sua comparsa un frammento di guscio. Fatti che forse in trattoria non destano alcuno scandalo. Se però il pesce è stato minuziosamente sfilettato al tavolo, o, meglio ancora, già porzionato e impiattato in cucina con un prezzo del piatto adeguato, allora quella lisca e soprattutto quel guscio non dovrebbero esserci. Farlo notare o tacere? La via di mezzo può essere quella di rendere osservabile la cosa senza troppo clamore. Il reperto a bordo piatto è sufficiente. Due reazioni opposte accadute in locali blasonati. Potrà capitarvi che a sorpresa, dopo aver ritirato i piatti, dalla cucina ne esca uno non richiesto: un doppio spiedino di scampi, un omaggio da parte dello chef per farsi perdonare le lische di troppo. Oppure ancora che, dopo aver palesemente notato il vostro gesto, la cosa passi in totale silenzio e non è bello. Se quella lisca non si è fortunatamente conficcata in gola, di sicuro è rimasta impressa nella memoria.
2. Troppo e troppo poco: eccessi e difetti nel piatto
Tra minuti e grammature minuziosamente calcolate, abilità di cuochi provetti che sanno regolarsi senza nessuno strumento di misurazione e generiche indicazioni del tipo «quanto basta», ci sono una serie di elementi che potremmo definire parametri tecnico-gustativi sui quali chef e cliente possono non concordare. La cottura della pasta, la quantità di sale, la temperatura di servizio. Il cliente non ha sempre ragione ma difendere la propria cucina anche quando l’errore è palese si rivela una strategia ottusa. Tornare sulle proprie posizioni non è solo una prova di umiltà, è anche una prova di intelligenza.
Un esempio? Potrebbe capitare (ed è capitato) che in un ristorante lontano dai circuiti Michelin ma molto acclamato da pubblico e critica, quel piatto di pasta fresca esca dalla cucina, e soprattutto dall’acqua di cottura, un po’ troppo presto. Dopo averlo fatto notare la prima risposta ottenuta è una cosa del tipo: questa è la nostra scelta. Dopo qualche minuto però la stessa persona torna indietro e con molta semplicità ammette: sono stato in cucina, l’ho assaggiata ed era proprio indietro di cottura, quel piatto non le verrà messo in conto. Che dire? Chapeau.
Quando invece davanti a un piatto oggettivamente salato che tu ti sei rifiutato di terminare e chi ti siede accanto ha finito a fatica, ti senti rispondere che lo chef, sentendo anche il sous chef (un meeting di fatto sul tema) ha riscontrato che la quantità di sale era giusta ma che, in effetti, si sono dimenticati di segnalare la presenza nel piatto della colatura di alici, allora quel «sapore di sale, sapore di mare», diventa davvero «un gusto un po’ amaro di cose perdute».
3. Il tempo passa e dalla cucina tutto tace
Indipendentemente da quello che abbiamo ordinato, quanto tempo è legittimo che passi prima che arrivi il vostro piatto? In alcuni casi (vedi il fatidico risotto espresso) sono già indicati in carta i tempi di attesa. E così anche per altre portate, tipicamente il soufflé, cucina e sala mettono le mani avanti: vuoi ordinarlo? L’attesa è compresa. Ma se i tempi si dilatano, che fine hanno fatto i nostri piatti? Qui il primo atteggiamento che scatta spesso è una generica rassicurazione, senza nessuna vera spiegazione. Un doppio errore: da una parte si nasconde al cliente la reale causa del ritardo, dall’altra rischia di essere una vana promessa, perché trascorsi quei linguisticamente orrendi «minutini», spesso il piatto ancora non si palesa. Meglio ammettere subito che c’è stato un incidente, una comanda persa, qualcuno che in cucina è assente e ha creato un affanno nella brigata, insomma la verità paga e aiuta a rasserenarsi, o a rassegnarsi, chi sta aspettando. Poi magari una piccola simbolica coccola finale aiuterà a digerire il pasto e il ritardo.
4. Descrizioni incomplete o fallaci
Nei cosiddetti ristoranti gourmet, ma non solo, spesso la descrizione di un piatto occupa il tempo necessario a farlo raffreddare. Scherzi a parte, il minimalismo, o anche solo la semplicità e la regola del less is more di marchesiana memoria latitano. Se poi il risultato ha un senso al palato, ben venga anche questo neo barocco gastronomico. Il problema è la memoria del cameriere che deve ricordare tutto. La globalizzazione, a dispetto del decantato km 0, o in contraddittoria convivenza con questo, fa finire nei piatti anche ingredienti esotici che non conosciamo. Non fermiamoci al passivo ascolto della litania imparata a memoria: clienti, non abbiate paura di chiedere, anche richiedere nuovamente se qualcosa vi è sfuggito o meglio ancora se qualcosa non vi è noto o non vi torna dopo il primo boccone. Se sentite un sapore che nella descrizione del piatto non veniva descritto e vi stuzzica, ad esempio.
Spesso chi racconta il piatto si ferma dove è lecito fermarsi per non scendere troppo in dettagli ma davanti a un’ulteriore curiosità il personale sarà ben lieto di rispondervi magari raccontando aspetti di quel piatto che lo rendono ancora più interessante. Di pavidi leoni da tastiera l’universo gastronomico è già saturo; stroncatori di professione arrivati a casa mentre al ristorante, alla domanda «Com’è andata?», rispondono «Tutto bene, grazie!». Non mancano poi accondiscendenti professionisti o amatori che confondono la critica con l’offesa e non sanno criticare o che confondono l’offesa con la critica e sanno solo brutalmente stroncare.
E quando la descrizione oltre a essere incompleta è errata? Quello spaghetto era annunciato affumicato, ma così non era secondo il vostro palato. Educatamente fatelo presente, magari non lo avete riconosciuto voi e magari c’è stato un difetto di comunicazione tra sala e cucina, dirlo aiuta anche a migliorare il lavoro del locale. Nel caso reale accaduto ad esempio lo spaghetto in effetti non era affumicato, seppure buono, stavolta il palato del cliente aveva ragione, e come compensazione si è visto consegnare un cofanetto di cioccolatini al momento del caffè. La mancata affumicatura si è dissolta: caffè e conto per favore e soprattutto alla prossima volta!
5. Allergie, intolleranze e antipatie
Qui la faccenda si fa tremendamente attuale e al tempo stesso delicata. Da una parte viviamo un’epoca di diffusione di allergie e intolleranze alimentari. Dall’altra, come naturale conseguenza, l’attenzione sul tema sale e le cautele del caso aumentano. Già al momento della prenotazione scattano le domande di rito su queste limitazioni a tavola per evitare spiacevoli incidenti. C’è poco da dire, con la salute non si scherza e qui l’errore non è ammesso. Non così grave ma spiacevole è quando l’indicazione per un commensale che non mangia carne viene ignorata e al momento degli amuse bouche (quegli stuzzichini di benvenuto che anticipano il pasto) il malcapitato si vede recapitare un bel bocconcino di salsiccia.
Quanto ai clienti, al netto di reali intolleranze o allergie, su leggere idiosincrasie o qualche piccola antipatia alimentare potremmo anche soprassedere tutti per una volta. È capitato di vedere tavoli dove l’elenco delle variazioni richieste alle portate era superiore al numero di commensali (per me niente aglio, io non sopporto la cipolla, alla signora no funghi, il tartufo sarà anche pregiato ma non ne sopporto l’odore e così via). Mai come in quel momento è doveroso lasciare una generosa mancia, a compensazione della prova di nervi in sala e in cucina. Però il cliente ha sempre ragione, o no?
Se la richiesta inizia a deragliare troppo dalla ricetta (senza arrivare all’eccesso del mitologico formaggio a pioggia sul primo di pesce) come si muovono in sala e in cucina? Le scuole di pensiero sono probabilmente due: lo vuoi a modo tuo quel piatto? Lo paghi e lo mangi tu, te lo preparo come desideri. Se invece la cucina ha velleità creativo/artistiche allora: questa è la mia proposta di cucina, se non ti piace vuol dire che non la capisci, di variazioni non se ne parla proprio.
Al buonsenso l’ardua sentenza.