Nel periodo fra le due guerre, e durante la Seconda guerra mondiale, l’idea di un ordinamento politico europeo organizzato su una base più o meno federale era stata espressa da alcune vigorose personalità, e aveva trovato consensi in élites ristrette; nel secondo dopoguerra, pur senza diventare un mito di massa – poiché si può dire che fino all’elezione diretta del parlamento europeo l’Europa rimase affare di poche centinaia di persone –, ebbe tuttavia una fortuna e uno sviluppo notevoli rispetto alle precedenti manifestazioni. Ciò dipese da vari fattori.
Anzitutto ci fu allora una maggiore consapevolezza dell’urgenza del problema, urgenza direttamente derivante dal grado di prostrazione economica in cui versavano i Paesi europei e dall’imminenza del pericolo di una nuova guerra qualora al crollo del vecchio equilibrio europeo determinato dalla guerra, che aveva messo a terra sia i vinti che i vincitori europei, non si fosse sostituito un nuovo assetto europeo impostato su basi più solide di quelle che offrivano i vecchi Stati nazionali, il cui prestigio era tramontato.
Se i movimenti della resistenza avevano guardato all’Europa soprattutto come garanzia contro il ritorno dei totalitarismi, nel dopoguerra furono le esigenze della ricostruzione e il nuovo clima della Guerra fredda che indussero a pensare all’Europa, rispettivamente come condizione di ripresa economica sostenuta dagli Stati Uniti e come condizione di pace, e fu anche l’esigenza della modernizzazione delle strutture politiche ed economico-sociali che si ripropose più acutamente per effetto di una maggiore conoscenza da parte delle élites del modello americano.
In secondo luogo, i governi e gli uomini d’affari parteciparono direttamente, nella nuova fase, alla discussione e all’azione europeistica. Emerse, inoltre, negli anni 1946-1947 una politica radicalmente nuova da parte degli Stati Uniti d’America. L’influenza della politica americana sull’avvio del processo d’integrazione economica, politica e militare dell’Europa occidentale fu importante, e caratterizzò la prima fase della storia della costruzione europea (seconda metà degli anni quaranta e prima metà degli anni cinquanta); ma non fu la sola circostanza che influì sul fenomeno.
Altre forze europeistiche, uomini politici e movimenti d’opinione, e diversi principi ispiratori e interessi tipicamente europei animarono fin dall’inizio – è bene sottolinearlo – la ricerca di un’organizzazione dell’Europa e informeranno di sé la costruzione comunitaria degli anni cinquanta e, ancor più, l’evoluzione della stessa negli anni seguenti.
I sei anni di guerra, che avevano prodotto distruzioni senza precedenti nella storia umana, avevano accelerato il movimento di spirale discendente dell’influenza e del potere europei. Le perdite umane e materiali sembravano irrimediabili. Il numero dei morti in Europa era stato tre volte superiore a quello della Prima guerra mondiale e quasi la metà di tali morti era stata costituita da civili. Si era detto allora che durante i bombardamenti tedeschi sulla Gran Bretagna gli inglesi combattenti avevano avuto maggiori probabilità di ricevere un telegramma annunciante la morte delle lori mogli, che non queste di ricevere un telegramma annunciante la morte del loro marito. Alla carneficina si era accompagnato un esodo dall’Europa senza precedenti nella storia del continente.
Per ragioni razziali, politiche o di sicurezza ben sedici milioni di europei lasciarono definitivamente il loro Paese natale (per lo più la Germania o l’Europa orientale) fra il 1939 e il 1947 e questo fenomeno trasformò la carta etnografica dell’Europa orientale.
Anche le distruzioni di città e villaggi, di impianti industriali e di vie di trasporto erano state senza precedenti in Germania, Russia, Francia, Belgio, Olanda a causa delle bombe incendiarie. In quasi tutto il continente la produzione industriale e agricola era diminuita di più della metà; la penuria di viveri, di vestiario, di beni di consumo era estrema; la dislocazione degli scambi commerciali totale. Se si fa eccezione per la Svezia e la Svizzera, l’Europa sembrava un gigantesco ospizio di miserabili e destinata a presentarsi come tale per alcuni anni.
Oltre che dai bombardamenti, l’Europa era anche rovinata dalle spese di guerra e si trovava in piena crisi finanziaria. Benché i britannici fossero riusciti a finanziare quasi la metà del loro sforzo bellico con un sistema di prelievi regolari, la Gran Bretagna era il Paese più indebitato del mondo: in primo luogo verso gli Stati Uniti, per le elargizioni ricevute in base alla legge affitti e prestiti, ma anche verso i Dominions e i Paesi dell’area della sterlina.
La Francia aveva meno debiti verso gli americani, ma la sua moneta aveva perduto completamente valore a causa delle spoliazioni tedesche e, se voleva evitare il disastro, aveva urgente bisogno di un aiuto esterno. La stessa cosa valeva per l’Olanda e per il Belgio. Quanto all’Italia, bisognava aggiungere ai danni subiti per effetto della guerra quelli derivati durante l’occupazione interalleata dalla circolazione delle am-lire.
I tedeschi, che durante la guerra avevano mantenuto una stabilità finanziaria artificiale contando sulla vittoria per darle consistenza, erano a terra, schiacciati da un debito pubblico che era dieci volte quello del 1939 e da un’inflazione finanziaria che era sette volte superiore a quella dell’anteguerra.
La prostrazione dell’Europa era tanto più evidente quanto più contrastava con la ricchezza e il potere straordinari degli Stati Uniti vincitori. Da parte americana le perdite in vite umane erano risultate assai contenute in rapporto alla popolazione. L’industria, sollecitata dalla domanda bellica, si era sviluppata come in una serra calda, raddoppiando quasi i suoi indici (Pi e Pnl). La marina mercantile era passata dal 17 per cento al 63 per cento del tonnellaggio mondiale. Quell’Europa prostrata e immiserita avrebbe dovuto affrontare non solo una rivale transatlantica di potenza soverchiante, ma anche l’agitazione e le rivendicazioni nuove di un’Asia e di un’Africa insorgenti contro il colonialismo.
La guerra aveva, infatti, logorato l’autorità morale, oltre che il potere economico e militare degli Stati europei. Le vittorie iniziali del Giappone, distruggendo la tradizionale immagine dell’invincibilità occidentale, avevano incoraggiato i popoli asiatici a reclamare dei cambiamenti. I giapponesi stessi avevano diffuso nel Sud-Est asiatico aspirazioni indipendentistiche, presentandovisi come dei liberatori; e gli americani, con il loro vangelo di anticolonialismo, avevano attizzato il malcontento. Inoltre certi popoli coloniali – indiani, congolesi, africani dell’Africa francese – avevano molto contribuito in effettivi e in risorse alla vittoria alleata e si sentivano in diritto di presentare il conto.
Certo, gli europei stremati potevano ancora pensare che gli imperi coloniali avrebbero offerto loro la base su cui riedificare la loro potenza mondiale, ma su quella prospettiva incombeva il pericolo di vedere i vantaggi di un impero presto eliminati dal costo della sua conservazione.
da “Europa unita, sogno dei saggi”, di Maria Grazia Melchionni, Marsilio, 2021 (prima edizione: 2001), pagine 336, euro 16,50