Le notizie provenienti dagli Stati Uniti e dal resto del mondo sulla diffusione delle varianti, sull’aumento dei contagi e anche dei ricoveri e delle morti, dovrebbero indurre tutti a un soprassalto di responsabilità e di impegno: se quella contro il virus, come ormai abbiamo imparato, è prima di tutto una corsa contro il tempo, sarebbe bene non perderlo in discussioni inutili, o addirittura dannose, perché capaci solo di alimentare pregiudizi e timori infondati. Purtroppo è esattamente quello che stiamo facendo.
Anche ieri, in un’intervista al Fatto, Maurizio Landini è tornato a ripetere che «è il momento che Parlamento e governo si prendano la loro responsabilità». Guardandosi bene dal fare altrettanto, ovviamente, e anzi continuando ostinatamente a giocare con le parole.
Esempio: «Noi siamo d’accordo sull’obbligo vaccinale e non abbiamo, in principio, nulla in contrario al green pass, ma non va usato per aggirare l’inadempienza del governo sulla legge. Il problema non riguarda solo i luoghi di lavoro, ma tutto il paese».
Fate questo piccolo esperimento mentale. Mettete al posto della lotta contro il Covid una qualsiasi delle tante emergenze che il sindacato ha dovuto affrontare nel passato – terrorismo, crisi economica: fate voi – e provate a immaginare Luciano Lama o Bruno Trentin che scandiscono: «Noi siamo d’accordo sulla lotta contro x e non abbiamo, in principio, nulla in contrario allo strumento y, ma non va usato per aggirare l’inadempienza del governo… Il problema non riguarda solo i luoghi di lavoro, ma tutto il paese». Che effetto vi fa?
Già dalla domanda successiva, per giunta, si vede che il problema riguarda anzitutto i luoghi di lavoro, giacché è lo stesso Landini a non volere l’utilizzo del green pass nelle mense aziendali, in quanto «la mensa non è un ristorante» ed è «già messa in sicurezza con i protocolli». Evidentemente nei ristoranti aziendali, che non sono ristoranti, esiste un modo di mangiare e bere senza togliersi la mascherina, o forse semplicemente il protocollo prevede che lì non si mangi e non si beva (il che effettivamente spiegherebbe perché non sarebbero ristoranti).
E non è ancora finita. Aggiunge infatti Landini: «Si rendano gratuiti i tamponi, non si può pagare per lavorare o per mantenere un diritto conquistato».
Dunque tutti noi, come contribuenti, dovremmo pagare milioni di euro per consentire di fare ogni giorno decine di migliaia di tamponi a tutti quei lavoratori i quali, non per ragioni di salute o altre cause di forza maggiore, ma per libera scelta, non hanno voglia di vaccinarsi. Una presa di posizione con cui il segretario della Cgil assume evidentemente il ruolo di sindacalista dei no vax, proponendo di mettere a carico di tutti – lavoratori compresi – i pregiudizi e i capricci di una minoranza rumorosa. E lo fa usando un argomento degno di loro, cioè completamente irrazionale e incongruente rispetto al problema, come se tampone e vaccino fossero equivalenti e intercambiabili. Un’assurdità che può essere affermata in buona fede solo da chi sia convinto che il vaccino non serva a niente, e sia solo un’inutile formalità (se non peggio) necessaria per ottenere il green pass, cioè la possibilità di andare dove si vuole.
Per quanto mi sembri incredibile, sono dunque costretto all’umiliante incombenza di spiegare al segretario della Cgil, il principale sindacato italiano, che il tampone – al contrario del vaccino – non protegge chi lo fa né dal contagio né dalla malattia, né dalla possibilità di finire in ospedale e morire, né dalla possibilità mandare all’ospedale gli altri (il tampone, oltre ad avere percentuali di attendibilità/efficacia assai inferiori rispetto al vaccino, è un controllo ex post: se risulta positivo, vuol dire che il soggetto in questione è già contagioso, e può avere già contagiato altri).
Il guaio è che quella di Landini non è l’uscita infelice di un’intervista sfortunata, ma l’ennesima conferma di una linea ribadita più volte da lui e da tutti i sindacati confederali, sempre accompagnata, per di più, dal ritornello ipocrita con cui si sfidano governo e parlamento a «fare una legge» sull’obbligo vaccinale. Non per niente, è lo stesso giochino utilizzato continuamente anche da Giorgia Meloni, così da mettere in imbarazzo contemporaneamente il governo di Mario Draghi, che presumibilmente sarebbe ben lieto di metterlo subito, l’obbligo vaccinale, e Matteo Salvini, che presumibilmente non può permetterlo.
Quando però a schierarsi contro il green pass sono Salvini e Meloni, da sinistra non mancano mai dichiarazioni indignate. Quando a farlo sono i sindacati, invece, silenzio. Ed è significativo che nelle stesse organizzazioni dei lavoratori a parlare siano solo coloro che le hanno magari anche autorevolmente guidate, ma in passato, e non hanno oggi più alcun ruolo al loro interno, come Sergio Cofferati, Savino Pezzotta, Giorgio Benvenuto, già segretari di Cgil, Cisl e Uil, o Marco Bentivogli, ex segretario della Fim-Cisl.
Se ne potrebbe dedurre che la situazione attuale, in quelle organizzazioni, sia tale da spingere gli attuali dirigenti su posizioni che i loro predecessori non riescono nemmeno a capire. Sarebbe una conclusione inquietante, perché significherebbe che tra i lavoratori, e dunque, verosimilmente, nella società italiana nel suo complesso, le posizioni anti-vacciniste sono molto più diffuse di quanto pensiamo. Ma l’andamento della campagna di vaccinazione non sembra confermare una simile ipotesi. Neanche nelle scuole e tra i professori, dove pure i sindacati chiedono tamponi gratuiti per tutti (non solo, ripeto, per chi è ovvio e doveroso che ne possa disporre per ragioni di salute), protestando contro logiche «sanzionatorie e punitive» (come ha detto anche Landini in una delle tante precedenti interviste).
Qual è dunque la ragione del silenzio della sinistra, dei dirigenti di partito, dei sindacalisti e degli intellettuali progressisti (almeno di quelli che non sono già impegnati a dire analoghe fesserie)?
Immagino che una risposta potrebbe consistere nella solita lezioncina sul realismo, le condizioni date, la necessità del compromesso. Argomenti spesso validi, intendiamoci, ma mai a priori. Al contrario, tali argomenti andrebbero misurati ogni volta, con grande attenzione, sulla bilancia dei costi e dei benefici. E qui, quando parliamo di Covid, sul piatto dei costi, ci sono decine di migliaia di vite, e il rischio concreto di tornare alla casella di partenza, ai lockdown e alle restrizioni più dure.
C’è poi un problema più generale. Se il populismo antivaccinista è diventato così diffuso da rendere politicamente problematico prenderlo di petto, la prima reazione di chi abbia minimamente a cuore il futuro della sinistra (e dell’Italia) non dovrebbe essere: allora bisogna proprio che ci troviamo un accordo. Dovrebbe essere, all’opposto: allora è proprio venuto il momento di metterci un freno, alzare un argine, provare almeno a dare battaglia.
In fondo, le persone ragionevoli, gli operai che vogliono poter andare a lavoro e alla mensa senza timore di essere contagiati, i professori e gli studenti che vogliono poter fare lo stesso a scuola, tutti quelli che vogliono tornare il più in fretta possibile alla vita di prima sono di più, molti di più. Lo spazio per una battaglia politica, per far pagare alla destra il prezzo dei suoi doppi e tripli giochi, delle sue contraddizioni e della sua irresponsabilità, ci sarebbe eccome. La tragedia è che anche i partiti della sinistra, proprio come i sindacati, sembrano ormai diventati parte del problema, più che della soluzione. Ma di questo passo anche le discussioni che pure tanto ci appassionano sul rapporto tra democratici e grillini diverranno irrilevanti, perché sarà sempre più difficile distinguerli.