Marx in BerlinImmedesimarsi in coloro di cui non si condividono le idee è l’aureo filo del saggista

Adelphi ripubblica il primo libro del magnifico essayiste liberale, che a 30 anni raccontò da par suo il fondatore del comunismo. È un testo scritto da un uomo che sapeva da dove veniva («Sono un ebreo russo di Riga, e tutti gli anni passati in Inghilterra non possono cambiare questo fatto») su un uomo che per tutta la vita avrebbe fatto esercizio di distanza dalle sue origini ebraiche. E io non posso smettere di pensare a questa cosa

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Isaiah Berlin non ha certo bisogno di presentazioni: pensatore liberale tra i maggiori del Novecento, storico della cultura moderna imprescindibile, diplomatico britannico durante la Seconda guerra mondiale e brillante epistolografo (leggere “A gonfie vele” per credere) – Sir Isaiah Berlin è stato soprattutto un grande scrittore, un essayiste magnifico. Una nuova edizione di un suo libro è quindi imperdibile, per il lettore; e se il libro in questione è il “Karl Marx” dell’autore, per la cura di Henry Hardy e i tipi di Adelphi, allora l’occasione è doppia. Leggere Berlin e ritrovare Marx.

Meglio fare chiarezza: nonostante il titolo, il libro non è una biografia di Karl Marx – il lettore non lo avrebbe aperto – è ben di più: «La storia che intendo raccontare è soltanto [il corsivo è mio] quella della vita e delle idee del pensatore e militante nel cui nome i partiti marxisti vennero originariamente alla luce in molti Paesi”. (Così nella prefazione dell’autore alla Quarta edizione del 1977, l’ultima con Berlin vivo). Dove in quel soltanto c’è tutto l’autore: arguzia, ironia, snobismo, understatement. Cosa può esserci di più largo e tumultuoso della storia delle idee rivoluzionarie (di Marx ma anche di tanti altri) nell’Europa che va dal 1830 al 1872? Senza contare il simulacro Hegel. Quale occasione migliore per rifare il giro delle chiese.

Il valore primario della prosa di Berlin è nel tono, la sua tenuta: il tono del discorso, dello scrittore che scrive come pensa: conversevole e amabile, certo, e sistematico. La prima volta che ho letto un libro di Berlin (era “Il legno storto dell’umanità”), è uscita questa frase: «I liberali discorrono – i socialisti dibattono» (l’ho ritrovata scritta sul foglietto di lettura: è un utile ausilio). È la ragione per cui in Italia i liberali si contano e la Sinistra (in una società capitalistica: i socialisti, quale che sia la sigla) è un carnevale di correnti. Il discorso liberale e il dibattito socialista.

Il “Karl Marx” di Berlin è il primo titolo della bibliografia berliniana, la prima edizione è del 1939, quando Berlin cercava il suo posto nel club di Oxford: la sistematicità è appena troppo solerte: si percepisce la volontà di attenersi agli standard (alti e conversevoli) della saggistica oxoniense. In più, andava a toccare una questione importante della cultura europea – e non solo politica. L’Europa stava per andare in fiamme; il marxismo era spauracchio o speranza. L’intento di Berlin è espositivo: mettere in luce la struttura portante dell’architettura ideologica marxiana e indicare le direttrici di quello che è stato (in coppia con Friedrich Engels) un formidabile organizzatore politico. Tutto questo attingendo ai testi marxiani ma non solo: è tutto il ribollente brodo del pensiero socialista rivoluzionario dell’Ottocento (utopisti, sindacalisti, anarchici) a essere preso in considerazione. Ebbene: la pluralità di voci e non tra le più misurate nel tono (né le più limpide nella sostanza) si dispone con naturalezza all’interno del discorso berliniano, e il lettore può rivedere l’immagine di un’epoca turbolenta dell’Europa tradursi in discorso chiaro, in frasi e parole proprie. Ecco il primo motivo della freschezza di un libro che ha data.

È un paradosso – ma forse, non tanto: la temperie di quegli anni drammatici, per la civiltà europea, inducono Berlin a un distacco netto dallo scontro ideologico e non solo: è il secondo motivo della freschezza del discorso. L’incipit: «Nessun pensatore del secolo scorso ha avuto un’influenza così diretta, meditata e profonda sull’umanità quanto quella esercitata da Karl Marx» – così, d’emblée, senza esitare, scritto da un liberale convinto. Diretta, meditata e profonda – parole che spiccano. È un gesto risoluto, a sgombrare il tavolo: sono qui per discorrere, non per altro. C’è poi un filo sottile, sottile e luminoso, che spicca nella trama delle narrazioni. Henry Hardy, curatore delle opere dell’autore, dice della «celebrata capacità di immedesimarsi in coloro di cui [Berlin] non condivide le opinioni», dono che pare lasciasse interdetti gli interlocutori. È il dèmone della recitazione, l’aureo filo sottile: è il talento più necessario allo scrittore-lettore, il saggista: chi ha letto uno qualsiasi dei suoi saggi sa quanto fosse spiccato in Berlin. Qui, per le ragioni sopra dette, il talento non può esprimersi appieno, il filo fa capolino solitario nei passaggi decisivi. È il filo dell’arte del maieuta – l’anima (in entrambi i sensi figurati) dell’arte del discorso. È il segreto della fluidità della narrazione saggistica.

Ho letto il libro con crescente ammirazione e impazienza, nonostante la solerzia sistematica di cui ho detto. I capitoli sulla filosofia dello Spirito di Hegel, sui “giovani hegeliani” e sul materialismo storico sono dei compendi di esemplare chiarezza e un utile ripasso, soprattutto quelli su Hegel e i “giovani hegeliani”: è lì, in quel momento, che prende forma quella indisponente e isoscele istituzione che è stata la Filosofia Tedesca (le due “gambe”: lo Spirito e la Storia) da cui Burckhardt e Nietzsche ci hanno liberato per sempre. Quanto al materialismo storico e alla implacabile necessità della Storia e correlativi collettivisti, il liberale Isaiah Berlin lascia solo un segnale, che è lanterna del faro, commentando l’incertezza sul tema del “Manifesto del partito comunista”: «Un conto è affermare che se non riuscirà a comprendere le leggi che governano la propria vita, l’uomo finirà inevitabilmente con l’entrarvi in conflitto e resterà vittima di forze incomprensibili; ben diverso è dire che tutto quanto egli fa ubbidisce a tali leggi, e che la libertà altro non è che la percezione dei suoi bisogni [la Necessità], essa stessa elemento dell’immutabile processo in cui la possibilità di scelta, individuale o collettiva, da parte dell’uomo è totalmente determinata da fattori esterni ed è, in via di principio, interamente prevedibile». Fissa il punto decisivo di divergenza e passa oltre.

Isaiah Berlin aveva trent’anni, quando ha pubblicato il suo “Karl Marx”: è quel che ho pensato a lettura ultimata. Era un giovane leone e faceva il suo ingresso in campo. Avrebbe pubblicato decine di saggi di storia della cultura e tra i più felici del tempo, vissuto la Seconda guerra mondiale come diplomatico inglese negli Stati Uniti e a Mosca ed è ritenuto una delle glorie accademiche britanniche. Verso la fine della sua vita disse: «Sono un ebreo russo di Riga, e tutti gli anni passati in Inghilterra non possono cambiare questo fatto».

Quest’uomo e scrittore ha esordito con un saggio su Karl Marx, figlio di un ebreo convertito al luteranesimo, un uomo che per tutta la vita avrebbe fatto esercizio di distanza dalle origini, con malcelato fastidio. Non posso smettere di pensarci.

Isaiah Berlin, “Karl Marx”, Adelphi, 2021

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