Ho scritto in tempi non sospetti che Emanuele Trevi è il miglior scrittore italiano della sua generazione – e ne sono convinto. Pure il primo incontro con un suo libro non era stato felice: la Prova del Trenta (in quel caso cinquanta – le pagine lette seduto comodo in libreria) aveva dato responso negativo più rabbia, e rammarico. Il libro in questione è “I cani del nulla”, che ora Stile Libero (Einaudi) ripubblica con tonante fascetta nel giallo segnaletico del dorso dei libri della Casa, tanto molesto da obbligare all’infilo al contrario nella libreria deputata. La nuova edizione presenta anche una introduzione di Sandro Veronesi, molto partecipe, e accorata d’avverbi. Non migliora le cose la foto di Gina-Kurt Cobain in copertina.
Ricordo con precisione la frase uscita al termine della lettura: «La solita gnagnera romana» – più una invocazione, su cui sorvolerò. La gnagnera romana: quel portare a spasso l’ammennicolo e il cervello, così peculiare, che ha esordio e già epitome nel cinema in falsetto di Nanni Moretti. La quale gnagnera è sopportabile (forse) per i novanta (già più difficile) minuti di proiezione di uno dei film parlati – tanto parlati – del Cinema Romano, ma è perniciosa per la pazienza dell’incauto lettore, sedotto dalla qualità della prosa di Trevi. Così, rabbia e rammarico.
Per un po’ non ho letto Trevi, poi è arrivato “Qualcosa di scritto” (2012): il notevole scrittore aveva trovato il luogo (lui direbbe «il paesaggio») per la sua scrittura e non lo avrebbe più lasciato. Da allora ho letto tutti i suoi libri, tra cui “Sogni e favole”, libro segnavia e uno delle migliori opere letterarie degli ultimi dieci anni. (Ho letto e riletto anche la ristampa 2012 delle “Istruzioni per l’uso del lupo”: istruttivo, per l’appunto). Ecco allora che la ristampa di “I cani del nulla” è subito apparsa come un’occasione di rilettura. Così è stato, in molti sensi e in diverse direzioni.
Lo dico subito, per chiarezza: la nuova e completa lettura ha confermato la prima e parziale, e l’insofferenza per la gnagnera è, se possibile, ancora maggiore – sono passati vent’anni, la gnagnera s’è fatta pervasiva. (L’invocazione non è salita: sono cresciuto, so che riguardo ai portatori di gnagnera neppure gli dei possono nulla). Però le parti dedicate alla poesia di Gabriele d’Annunzio che sta in apertura ed è motore del libro dicono già il Trevi-nel-suo-luogo: il Trevi lettore-scrittore, l’epigono (di chi e come, nella prossima pagina del Diario). In più, oggi emerge ancora di più il carattere sintomatico (involontario, e così vero) del protagonista del libro e altro. Andiamo in ordine, però: prima i personaggi, come si deve.
Il narratore e protagonista è una sorta di fratello minore, stonato e sussultante di Michele Apicella, l’alter ego di molti film di Nanni Moretti. Condivide con quello la vocazione alla gnagnera (il portare a spasso ecc.), il privilegio borghese e una certa tendenza agli astratti furori. Passa dal divano al tavolo, di notte porta la cagnetta a fare la passeggiata, si sveglia spesso zuppo d’ansia. Soprattutto, riflette e rifrange: «Elaboro analogie, decifro, memorizzo. Collego. Sono ben addestrato – un membro attivo della stirpe sapiente, possidente». Accanto a lui, la moglie Martina, una di quelle pertinaci scocciatrici dedite a ricorrenti esercizi di recriminazione (la maestra che a scuola leggeva Ungaretti, la scuola in sé – e poi di sicuro la società capitalistica, gli uomini, la famiglia ecc.) che trovano udienza solo dagli intellettuali.
Poi c’è lei, il mostro: la cagnetta: Gina. Non è un cane: è una ipostasi della Fragilità – ma non corriamo.
Gina è un reduce, e di disgrazie e soprusi e tali e tanti che neppure la facondia vittimistica di Martina riuscirebbe a immaginare; Gina è una vittima, e come tutte le vittime si sente sempre in colpa e s’è fatta uno chignon del senso di colpa; Gina è una attrice, una caratterista consumata e consunta il cui pezzo forte è il numero della captatio benevolentiae, vecchio cavallo di battaglia. Gina è il pezzo mancante del paesaggio domestico di una coppia di boccheggianti BoBo, che galleggia in un liquido amniotico di condiscendenza, in una atmosfera satura di fumo ricreativo e di odori bohémien (cane, tessuti etnici, cibo d’asporto): è il dio minore di un olimpo sgangherato e solipsistico – la versione canina di un mistico Birkenstock spaiato, ricordo di un viaggio in India. Tutto senza battere ciglio, così.
Materiale del genere chiede il distacco ironico e l’autore ci prova – ma non tiene. Accade che la venatura ironica viene man mano scemando, fino a scomparire, il tutto slitta verso la fatale osmosi psichica tra protagonista (e narratore) e cagnetta: si inizia con l’esibire gli armadietti dei farmaci («Io venero le medicine, le accarezzo. Le saluto. Non mi vergogno: ho fede, ho speranza. Mi affido a occhi chiusi al volere sapiente, alla profonda giustizia dei farmaci»), si passa a dire il collezionismo di cianfrusaglie come l’«ultima forma possibile di autentica cavalleria» dell’Occidente, e in men che non si dica ci si ritrova affondati nel grottesco.
Il libro è del 2003, ma l’atmosfera è quella degli ultimi anni Novanta, degli anni che vedono la morte di Kurt Cobain e il salire sulla scena di David Foster Wallace: due eroi e cantori della fragilità. (La svolta epocale in due figure: la bandana nichilista e survoltata di Christopher Walken nel “Cacciatore”; la bandana depressiva e geriatrica di David Foster Wallace). “La scopa del sistema” e “Infinite Jest” vengono pubblicati a Roma, dalla Fandango di Domenico Procacci, nel 1999 e nel 2000 – è lì che dilaga il mood della fragilità, che l’epica depressiva miete vittime (i sapienti e possidenti ascoltano Björk, ma il côté è quello).
“I cani del nulla” è sintomo e apoteosi minore. Mi era sfuggito, allora, succede – mi hanno vaccinato in tenera età, ho gli anticorpi. E poi ero troppo preso dai piccoli, preziosi lavori di “falegnameria” letteraria che già annunciavano l’Emanuele Trevi post-gnagnera e valente.