Il primo testo di Roberto Calasso che ho letto è stato Monologo fatale, il saggio posto a seguito dell’Ecce homo di Friedrich Nietzsche. (Il titolo non ammetteva repliche e la cosa per me era risolutiva). Una rivelazione: scoprivo un grande lettore e uno scrittore notevole. Un paio d’anni prima, era il 1982, avevo scoperto un altro grande lettore e scrittore, Cesare Garboli: la sua prefazione all’edizione Einaudi dei Diari di Antonio Delfini lo sanciva. Cesare Garboli e Roberto Calasso, sono opposti e complementari: Garboli vede il mondo sub specie formae, Calasso sub specie imaginis. (Non c’è niente di più umano della Forma; niente attiene agli dèi più della Imago, l’Immagine). Entrambi refrattari alla Teoria letteraria, molesta macchina celibe e atta al meretricio accademico, operavano una vera rivoluzione letteraria: riportavano il saggio, l’essai, nell’alveo naturale della narrazione. Cosa ci fosse dietro la mossa nel caso di Calasso lo avremmo scoperto con le opere seguenti, parti del “libro unico” che è andato scrivendo, a sua volta parte del più ampio libro unico che è Adelphi. Ora due testi in dittico offrono nuovi spunti.
Due esercizi di ritrattistica: un gruppo di famiglia in interni e un ritratto a figura intera – dove l’autore si ritrae in un angolo, rivolto al lettore. È propria degli scrittori-lettori, questa posa, questo definirsi in figura di testimone e negromante. (Calasso sa bene come trarre partito da quella posizione, non a caso a portata del sipario). In questi due esercizi di figura è un suo alter ego a muoversi in scena.
Nel primo, preso il nome di Memè Scianca (al lettore scoprire cosa c’è dietro), dice la famiglia di buoni studi e migliori letture, genealogia favorevole e ruoli importanti che è la sua, nella Firenze del periodo di guerra e poco oltre. Tutto nella norma di una solida borghesia, non fosse che la parola “famiglia” qui si estende all’accezione di famiglia spirituale. Ogni figura spicca di tratti netti e vita propria: il nonno materno Ernesto Codignola, pedagogista e tra i fondatori della casa editrice La Nuova Italia; lo zio Tristano Codignola, giurista e leader del Partito d’Azione (“un partito fatto soltanto di intellettuali (…) capace di imprimere alla vita politica italiana un certo tono – e non molto di più. Ma non era poco”) e poi co-fondatore della casa editrice Carocci; e la madre Melisenda, figura di riverbero e di finezza, laureata con una tesi su uno dei Moralia di Plutarco e in seguito studiosa delle traduzioni di Hölderlin da Pindaro ma “fedele al suo inesauribile Balzac” – c’è tutto quel che poteva servire, al meglio. Intorno, la Firenze ancora praticabile di quegli anni.
C’è un passaggio del libro, rituale, dove si dice di una copia di Les Fleurs du Mal, nell’edizione Crès del 1930 (“venusta alla palpazione”, a dire di Gianfranco Contini) il cui primo risguardo recita “la” storia: “Innanzitutto si vede un timbro ovale: «Fondo E. Codignola». In cima alla pagina, la dedica originaria: «a Maria il suo Ernesto», senza data. Poco sotto: «e Maria alla loro Melisenda. Nel settembre 1975». Ancora più sotto: A Roberto. Melisenda 15.12.2002»”. Una famiglia spirituale, per l’appunto. Lettura, studio, editoria – e senza soluzione di continuità. Più un pensiero decisivo: “questa idea di uno scritto che nasce da un altro scritto, lo rielabora, gli aggiunge qualcosa che prima non c’era, mi sembrava qualcosa da seguire”. Il resto sarebbe venuto: non a Firenze, a Roma. Entra Bobi, al secolo Bazlen.
Bazlen (“il cugino Bobi” lo diceva a Firenze il pittore Giorgio Settala) lo troviamo dapprima nella camera ammobiliata di via Margutta, non lontano dall’angolo magico tra via Condotti e Piazza di Spagna dove si coglieva “la più alta concentrazione di eleganza e avventurosità” della Roma “incredula” d’allora, già coperta da quella “foschia di parole” che non l’avrebbe più lasciata. Bazlen è già oltre, un passo in là. Lo ritroviamo ancora più defilato, a un passo dalla impermanenza, di passaggio nel primo ufficio milanese di Adelphi, in una palazzo su un cortile di via Morigi, dove Luciano Foà “sedeva in permanenza” e Claudio Rugafiori abitava in mansarda (Calasso e Rugafiori erano detti da Bazlen “i mutanti”): tutti presi dalla avventura di Adelphi, di cui Bazlen aveva stilato il sintetico e visionario programma: “Faremo solo i libri che ci piacciono molto”. L’unico programma degno.
Bobi Bazlen era un Messaggero. Questo è stato: punto. Roberto Calasso l’aveva ben compreso, non lo dice e lo indica. Bastano le forme di parole che erano lui, Bobi Bazlen: i libri unici (“dovevano nascere da un’esperienza diretta dell’autore, vissuta e trasformata in qualcosa che spiccasse, solitario e autosufficiente”), la primavoltità, (“il legame tra qualcosa che era successo e chi gli dava un nome”), e così altre. Calasso ha fatto tesoro di questo come editore, non ha dimenticato e oggi lo dice, in poche parole proprie: “L’opera compiuta di Bazlen fu Adelphi”. Dove il passato remoto rende onore e indica l’origine.
Infine, in quelle camminate romane, lontani dalle idee correnti (“ed erano tante, allora – e pesanti, difficili da smuovere”), che il messaggero aveva attraversate (“in un tempo remoto, come malattie infantili”) e lasciate indietro, inservibili quali erano, cosa il messaggero indicava? L’essenziale. “Bazlen fu per me quell’essenziale”, dice Calasso. Quello che poi troverà in Kafka.
Ecco Kafka, citato nel saggio di Calasso Lo splendore velato, posto a seguire l’edizione da lui curata degli Aforismi di Zürau: “È senz’altro pensabile che lo splendore della vita circondi chiunque, e sempre nella sua intera pienezza, accessibile ma velato, nel profondo, invisibile, molto lontano. Però esso sta lì, non ostile, non riluttante, non sordo. Se lo si chiama con la parola giusta, con il nome giusto, allora viene”. Eccolo, l’essenziale.
P.S. Mentre finivo di scrivere ho saputo della morte di Roberto Calasso, nel giorno della pubblicazione di Memè Scianca e di Bobi. Mi sono fermato. Non dirò i pensieri e il silenzio. Ho subito pensato che pubblicare il testo così com’era fosse il miglior saluto all’editore e allo scrittore. Mi piace pensare che C. abbia sollevato quel velo.