Per lui gli aggettivi si sprecano. Potente e carismatico dietro la scrivania del mussoliniano Palazzo H, quartier generale del Coni. Esteta e galante fuori. Intorno al capo dello sport italiano, Giovanni Malagò, c’è un’ampia letteratura che sconfina nel romanzo e pure nel cinema. I fratelli Vanzina si ispirarono a lui per il personaggio di Luca Covelli nel primo Vacanze di Natale 1983. Gli aneddoti della sua vita non si contano, come i flirt che gli hanno attribuito. Ma prima di tutto, le due figlie Vittoria e Ludovica, i tre nipoti, i labrador. Una quotidianità “romanordista” tra la sua casa ai Parioli e la villa di Sabaudia in cui ospita molti amici, da Francesco Totti a Carlo Verdone.
«Altre due medaglie e Malagò invade la Polonia». La battuta gira su Twitter, ma non è così lontana dalla realtà. Dopo gli atleti, il presidente del Coni è il vincitore indiscusso dei Giochi di Tokyo. Protagonista di un’impresa tanto clamorosa quanto inattesa. Prima al telefono con il premier Draghi per commentare gli ori dell’atletica («Mario questa cosa vale più degli Europei»), adesso detta l’agenda alla politica chiedendo lo ius soli sportivo.
«Dobbiamo occuparci solo di sport, non disperdere più energie, il Coni dev’essere più centrale nella vita del Paese», ha detto il manager al ritorno dal Giappone. Parole non casuali dopo due anni di battaglie politiche e sconfitte pesanti: in gioco c’è la riforma dello sport avviata con l’esecutivo gialloverde. La legge voluta dall’allora sottosegretario Giancarlo Giorgetti ha ridimensionato Malagò e tolto al Coni la maggior parte dei denari pubblici che gestiva, per dirottarli a una nuova società, Sport e Salute. Malagò ha smosso mari e monti. Oggi la partita non è chiusa, ci sono diversi dettagli da chiarire. Le quaranta medaglie sono il bottino giusto da investire nelle trattative con Palazzo Chigi.
D’altronde la vittoria di Tokyo porta la firma di “Giovannino”, così lo chiamano. Con buona pace di Roberto D’Agostino che l’ha ribattezzato “Megalò”. «Giovanni è una macchina da guerra. Può sembrare uno a cui le cose cascano sulla testa come le stelle portafortuna, troppo bello, troppo ricco, troppo piacione, mentre invece lotta come un partigiano quando vuole qualcosa, e quasi sempre porta a casa il risultato». Evelina Christillin, membro Uefa nel Consiglio della Fifa nonché regista delle Olimpiadi di Torino 2006, conosce Malagò da quando era bambino. «Veniamo da ambienti privilegiati – racconta a Linkiesta – ci danno la patente di viziati, in realtà ci siamo fatti il mazzo. Per lui lo sport non è solo un mestiere, visto che ne ha altri. È una passione».
Di lavori “Megalò” ne ha fatti tanti. Un reddito da 1,2 milioni di euro, advisor per banche internazionali e consigliere d’amministrazione un po’ ovunque. Con Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli, guida una holding di investimenti. Con il papà Vincenzo ha fatto decollare la Samocar, concessionario di lusso che ai tempi d’oro vendeva ottomila Bmw all’anno. Numeri talmente alti da convincere la casa di Monaco di Baviera ad acquistare il ramo d’azienda dei Malagò. Che oggi continuano a distribuire Ferrari e Maserati.
La sua agenda è sterminata, adatta a un campione di rapporti trasversali. L’avvocato Gianni Agnelli gli telefonava ogni mattina per sapere gli ultimi pettegolezzi dalla Capitale. Carlo Caracciolo lo invitava a casa sua a Trastevere per lunghe partite di poker accompagnate da vino e mozzarelle. Non di solo pane vive il manager, che salta i pranzi per fare sport. Tifoso romanista, giocatore professionista di calcio a cinque, si diletta con tennis, padel e canottaggio. Da ragazzo vinceva molto al casinò. Sarà per questo che Franco Carraro, tra i più longevi dirigenti sportivi italiani, lo ha descritto così: «Un fenomeno. Come quei giocatori che alla roulette capiscono il colore sul quale puntare. E passano dal rosso al nero e viceversa, sempre al momento giusto».
Alcuni lo detestano, per il tipo di mondo che rappresenta. Altri semplicemente lo invidiano. Chi proprio non lo sopporta, nei conciliaboli romani tira fuori la storia di un drammatico sinistro stradale risalente agli anni Ottanta. In quell’occasione Malagò avrebbe investito due ragazzi. Lo ha raccontato Panorama in un’inchiesta dedicata alla «vita spericolata» del futuro supermanager. «Un incidente mortale – scriveva il settimanale – ovviamente colposo, che a Roma fa ancora parlare». Un po’ come la vicenda di tre esami universitari che sarebbero stati falsificati quando il giovane Malagò frequentava la facoltà di Economia alla Sapienza. Titolo annullato, Giovannino si è laureato a 46 anni, nel 2005, all’Università di Siena sostenendo gli esami precedentemente annullati. «Nessuno ha mai potuto dimostrare né la colpevolezza né l’innocenza», ha detto lui. Acqua passata, tra polemiche e chiarimenti.
Una persona che conosce bene Malagò, sotto promessa di anonimato, al telefono con Linkiesta lo descrive come «un allegro cazzaro, un venditore di simpatia». Grandi capacità di relazione ed empatia. Ma è «un bravo organizzatore e problem solver, sa fare bene il suo lavoro e riconosce i talenti». Anche se i mondiali di nuoto del 2009 a Roma, da lui diretti, furono una via crucis tra lavori lenti, inchieste e cattedrali nel deserto.
Negli anni ha costruito consuetudini ai più alti livelli nel Comitato Olimpico Internazionale. Stimato e ascoltato un po’ da tutti. Sa come muoversi anche nei palazzi romani. Dicono di lui: «Destra o sinistra, non c’è un partito in cui Giovanni non arrivi». Oltre alle storiche amicizie con Walter Veltroni e Gianni Letta, ha ottimi rapporti con Matteo Renzi e Giorgia Meloni. In città si racconta che sia stato vicinissimo a guidare la Roma. Squadra di cui suo padre Vincenzo fu vicepresidente. Sicuramente gli è stato chiesto più volte di candidarsi a sindaco di Roma. La proposta non è arrivata dal Movimento 5 Stelle: da quelle parti il capo del Coni era l’incarnazione del male. Alessandro Di Battista lo ha definito «un coatto ben vestito». L’accusa più pesante, per un pariolino doc.
Cinque anni fa la sindaca di Roma Virginia Raggi gli diede buca dopo aver fissato un appuntamento per discutere della candidatura di Roma alle Olimpiadi. Lui a fare anticamera, lei in trattoria. Uno smacco pesante per una persona che cura l’immagine in ogni dettaglio. Imperturbabile, pochi mesi dopo si esibì pubblicamente in un baciamano alla sindaca. Smaltita la delusione per Roma2024, è riuscito a portare a Milano e a Cortina i Giochi invernali del 2026. E adesso si parla di Europei di calcio nel 2028 o addirittura di Mondiali nel 2030.
Il numero uno dello sport italiano guarda avanti e si espone senza timori. «Con Tokyo per lo sport italiano si è aperta una rivoluzione, dobbiamo battere il ferro finché è caldo». Negli ultimi giorni ha fatto arrabbiare la Lega con la sua proposta di anticipare l’iter burocratico per lo ius soli sportivo. «Malagò maldestro», lo ha rimproverato il sottosegretario in quota Carroccio Nicola Molteni. Il capo del Coni ha risposto con pragmatismo: «Ho centinaia di richieste delle Federazioni relative ad atleti nati e formati in Italia, che a 18 anni stentano a ottenere la cittadinanza e finiscono per abbandonare lo sport o acquisire la nazionalità del paese dei genitori o di paesi che vanno a caccia di talenti».
Prima dello ius soli, il vero scontro era andato in scena con Giancarlo Giorgetti. Il vicesegretario leghista ha tolto soldi e potere al capo dello sport italiano con una riforma travagliata. «Se guardate le prime cariche del Coni, sono tutte persone che appartengono al Circolo Aniene». Così tre anni fa parlava Giorgetti. Ancora prima del Coni, l’incarico di Malagò più invidiato nella Capitale è quello di presidente del circolo Canottieri Aniene, lussuoso sgambatoio della Roma bene, vero centro di potere e interessi. Solo gli uomini possono diventare soci effettivi: le donne entrano come atlete o socie onorarie.
Sotto la guida di Malagò, l’Aniene è diventato un gioiello di imprenditorialità illuminata raccogliendo il meglio dello sport italiano. Strutture all’avanguardia, atleti del calibro di Federica Pellegrini. Molto più di un circolo, è la seconda casa di chi conta davvero a Roma. Qualche anno fa lo stesso Malagò descriveva così la sua creatura: «Il clima che si crea all’Aniene ha dato la possibilità di dare vita ad aggregazioni tra banche, di favorire intese politiche. Qui si mangia, si beve, si gioca a tennis, si fuma un sigaro, si parla della Roma, dell’Alitalia, scattano i meccanismi di complicità, si risolvono i problemi e si concludono accordi. Sarebbe stupido nasconderlo: l’Aniene significa sport ma in un certo senso significa anche business».
Le relazioni contano e in alcuni casi fanno discutere. Negli ultimi giorni la stampa ha raccontato la storia di Fabio Barchiesi, prima fisioterapista di Malagò poi direttore dell’Istituto di medicina dello sport del Coni, ora a manager di Cassa Depositi e Prestiti. «Dopo queste Olimpiadi Malagò può tutto», ha scritto Repubblica. «Barchiesi è un dirigente di provato valore», ha risposto il numero uno di Cdp Dario Scannapieco. Insinuazioni o meno, il romanzo pariolino si arricchisce ogni giorno di una pagina nuova. Che sia Tokyo o Sabaudia, il favoloso mondo di Giovannino non conosce confini.