Il successo delle Olimpiadi di Tokyo è stato giustamente celebrato, incensato, esaltato più volte. È il trionfo della gestione di Giovanni Malagò e di un Coni che è riuscito a portare a casa un numero record di medaglie e di ori, è riuscito portare a podio atleti provenienti da tutta Italia e da tutti i continenti, quasi in tutte le discipline.
Sull’onda lunga delle Olimpiadi si potrebbe costruire lo sport di domani. Non solo quello dei campioni che andranno ai Giochi del 2024 – quelli in buona parte saranno gli stessi di Tokyo, perché tra le altre cose è anche un generazione molto giovane – ma quello che in qualche modo li fa nascere, l’intero movimento sportivo italiano che parte dal basso e non è fatto solo di risultati prestigiosi.
L’Italia olimpica, d’altronde, ha dimostrato di saper fare egregiamente il suo lavoro se lasciata libera di lavorare. «Il problema è che noi lottiamo con le mani legate dietro la schiena tra burocrazia e ipertrofia amministrativa. Ma questo è il momento di cambiare registro», aveva detto Malagò subito dopo i Giochi, ribadendo l’appello a lasciare lo sport olimpico italiano libero di correre senza intercessioni dalla politica (che spesso produce aberrazioni come quella “Sport e Salute” che a momenti impediva a Team Italia di presentarsi alle Olimpiadi).
I successi dei fenomeni Azzurri, però, sono soltanto la punta dell’iceberg dello sport. Sotto il pelo dell’acqua c’è un intero microcosmo fatto di società in difficoltà, impianti inadeguati o assenti, scuole che non danno il loro apporto in termini di istruzione sportiva e, più in generale, appassionati sportivi che devono rinunciare alla pratica di un’attività perché non ci sono le condizioni.
Il sistema sportivo italiano si regge per lo più sui gruppi militari. A Tokyo, solo nell’atletica leggera, 65 su 76 Azzurri appartenevano a un gruppo militare, l’85%. È un’eccellenza del nostro sport, ma un sistema davvero sostenibile avrebbe bisogno (anche) d’altro.
Intanto perché questo modello in passato ha creato diverse polemiche: le società sportive del territorio si vedono soffiare i talenti scoperti e su cui hanno investito, e poi molti atleti, una volta guadagnato il posto a tempo indeterminato, smette di crescere (sportivamente).
Ma i corpi militari spesso sono gli unici canali attraverso i quali gli atleti di un certo livello hanno la possibilità di garantirsi stipendio e allenamenti in strutture e centri sportivi di qualità.
Per questo dopo un’Olimpiade come quella giapponese, l’Italia ha l’occasione di investire sullo sport nazionale e sul suo futuro, a tutti i livelli.
Poche ore dopo il successo dell’Italia agli Europei di calcio e dopo la finale di Matteo Berrettini a Wimbledon, Flavio Tranquillo – autore del libro “Lo sport di domani” – aveva ricordato, attraverso i sui suoi canali social, che guardare lo sport come filiera di produzione del talento, come se fosse l’obiettivo finale dello sport di base, rischia di creare un controsenso logico rispetto al suo reale valore in una società.
«Nel calcio – scriveva il giornalista – il rapporto tra professionisti e tesserati è dell’1% circa, negli altri sport è una percentuale anche più bassa. Un ascensore sociale che escluda per definizione il 99% della platea, difficilmente può definirsi tale. Sappiamo che 99 dei 100 emulatori ispirati dai professionisti non avranno alcuna possibilità di tramutare la passione in carriera, ma tutti e 100 devono approcciare lo sport (all’inizio) come un’occasione di educazione, formazione e crescita. Possiamo tutti diventare cittadini migliori ANCHE con lo sport. Perché ciò avvenga sarebbero necessari investimenti in capitale umano, il cui ROI (Return on Investment) non dipende da un rigore parato a Wembley o da un serve-and-volley messo sulla riga a Wimbledon».
Insomma, lo sport di base non serve per replicare il servizio fulmineo di Berrettini, il Tiraggiro™ di Insigne o la velocità di Jacobs. C’è chi sta provando a costruire dinamiche simili: qualche giorno fa il New York Times ha pubblicato un’inchiesta sull’ossessione della Cina per le medaglie d’oro olimpiche, descrivendo una filiera di produzione dei campioni che li recluta da piccoli, li instrada nello sport in cui è più probabile che vincano un oro, li costringe a seguire allenamenti rigidi e così via. Ma i metodi del regime di Pechino non rappresentano il modello da imitare per una democrazia occidentale.
Piuttosto si potrebbe ragionare su quanto i risultati che abbiamo apprezzato quest’estate siano scollegati dal nostro sport di base.
Ad esempio, gli straordinari successi del quartetto Consonni, Ganna, Milan, Lamon che ha trionfato a Tokyo nell’inseguimento a squadre dipendono da dinamiche che appartengono solo allo sport di vertice e dal talento fenomenale dei singoli. Di certo non sono conseguenza di un movimento in salute, dal momento che, come scriveva il Foglio a inizio agosto, «di velodromi in Italia ce ne sono 27, di cui solo uno adatto a ospitare eventi internazionali. E quello stesso velodromo per quasi un anno e mezzo (dal luglio del 2018 al novembre del 2019) è stato chiuso a causa di problemi strutturali».
Lo stesso vale per il nuoto, che ha contribuito con 7 podi a Tokyo, ma «senza piscine queste medaglie non si vedranno più» (avvertimento del presidente della Federnuoto Paolo Barelli). O per le strutture di atletica, che versano in condizioni disastrose più o meno in tutta Italia e dovrebbero essere manutenute dai Comuni, cioè quegli enti territoriali che sono costantemente alla canna del gas.
«Mancano politiche pubbliche che diano una garanzia a chi permette lo svolgimento delle attività sportive in questo Paese», dice a Linkiesta Mauro Berruto, ex ct della Nazionale di pallavolo e direttore tecnico della Nazionale di tiro con l’arco. «Il nostro modello sportivo negli ultimi 75 anni si è basato su una delega ai privati sostanzialmente. Solo che il primo anello della catena sono le famiglie, che mettono soldi per far giocare i figli, sostengono le società sportive facendo dei sacrifici, e li fa solo chi se lo può permettere: gli altri sono tagliati fuori».
Un’indagine condotta da SWG e Sport e Salute su un campione di 8.400 associazioni sportive rivela che il 6% di queste ha già definitivamente chiuso i battenti, che un ulteriore 2% chiuderà nel corso del 2021 e che il 66% sarà in condizione di riaprire solo parzialmente le attività. Ciò in una situazione in cui il 61% delle associazioni ha perso, a costi immutati, più del 50% dei ricavi e si trova a dover far fronte a un’emorragia degli iscritti.
Chi vuole praticare attività sportiva non solo deve essere disposto a pagare – o deve poterselo permettere – ma deve anche avere la fortuna che l’associazione di riferimento non gli chiuda la porta in faccia per cause di forza maggiore.
È per questo che lo scorso 5 maggio la Sottosegretaria allo Sport del governo Draghi, Valentina Vezzali (3 ori olimpici individuali, 3 a squadre, innumerevoli successi Europei e Mondiali), aveva ribadito in audizione al Senato l’urgenza di «consentire che atlete e atleti non vivano il paradosso di perdere competitività nella prospettiva della vita lavorativa futura: è mia intenzione sostenere azioni che incentivino la loro formazione professionale in vista del loro inserimento nel mercato del lavoro, anche orientando in quella direzione contributi pubblici erogati in favore degli Organismi sportivi».
Tra le sue proposte figura, tra l’altro, un contributo sotto forma di credito d’imposta a favore delle società che intraprendono un programma di formazione e addestramento tecnico sportivo dei propri atleti. «Ritengo fondamentale garantire la possibilità di studiare e prepararsi al lavoro a chi fa dello sport la componente prevalente della propria vita in termini di tempo, di onerosità, di modalità di svolgimento. E su questo non ci sono differenze tra professionisti o dilettanti. Nel contempo, occorre consentire l’accesso alle attività sportive a chiunque per fare in modo che lo sport, l’esercizio fisico, gli stili di vita sani divengano un diritto universale, alla portata di tutti», ha detto Vezzali.
Il sostegno di cui ha bisogno lo sport, infatti, non è banale assistenzialismo. Investire nello sport significa creare cultura, educazione, salute pubblica. Da anni ormai si parla del risparmio per il sistema sanitario nazionale a fronte della spesa in attività motorie: già nel 2015 Sergio Pecorelli, presidente di Healthy Foundation, dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), indicava un rapporto di «1 a 5 tra gli investimenti nello sport e i risparmi del SSN». Solo che l’Italia è al 42esimo posto in Europa per la salute dei ragazzi di età scolare, secondo uno studio dell’Oms riferito agli anni 2017/2018.
Le imprese dei grandi sportivi generano emulazione e possono convincere chiunque a cimentarsi in uno sport. Poi però ci vuole uno sforzo ulteriore per mettere a sistema tutte le variabili dell’equazione e fare in modo che quelle persone siano incentivate a praticare sport (o quanto meno non siano frenate) tutto l’anno, sempre.
Da anni Berruto porta avanti anche un’altra proposta per riattivare lo sport di base: portare la parola “sport” nella Costituzione, non per motivi simbolici o strumentali. «La leva culturale – dice – non basta più. Ne serve una giuridica che ci aiuti a creare un modello di sviluppo dello sport regolamentato, rendendo la pratica sportiva un diritto da rispettare e da far valere, così come quello alla salute e all’istruzione».
Loro 40 medaglie, emozioni e storie indimenticabili. Ora tocca a noi:
1. La parola sport in Costituzione, generando un diritto.
2. L’educazione fisica nella scuola primaria, sul serio.
3. Politiche pubbliche di sostegno a società di base.
Si può fare, basta volerlo. #tokyo2020 pic.twitter.com/rhEzT7v7lS— Mauro Berruto (@mauroberruto) August 8, 2021
A proposito di istruzione. L’Italia non investe e non punta sull’attività sportiva scolastica, è evidente: secondo i dati del Miur il 55% degli edifici scolastici non ha nemmeno una palestra. Per fortuna il governo Draghi sembra aver inquadrato questa come una criticità (finalmente), destinando alla causa parte dei fondi in arrivo dal Next Generation Eu.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede 300 milioni di euro per il potenziamento delle infrastrutture per lo sport a scuola, quindi teoricamente si dovrebbero tradurre in 400 nuove palestre da costruire entro il 2026 (in tutto sono 230.400 metri quadri di nuovi impianti sportivi e palestre nelle scuole), mentre altri 700 milioni serviranno per ammodernare le strutture sportive e i parchi cittadini e ad aumentare la disponibilità di spazi per praticare attività sportiva.
Infine, sul binomio scuola e sport è utile soffermarsi sul tipo di apporto che possono dare gli istituti. Dal Coni in giù, è evidente a tutti che l’Italia non abbia gli strumenti né il potenziale per ipotizzare di importare il modello sportivo delle scuole e delle università anglosassoni – quelle che periodicamente vengono assunte ad esempio da seguire.
Le scuole e gli atenei italiani non possono trasformarsi in atletifici da un momento all’altro. Possono, però, contribuire a creare cultura sportiva, avvicinare le prossime generazioni allo sport e dare loro conoscenza e consapevolezza sui benefici dell’attività motoria a livello individuale e collettivo.