Così a quello che per timore del virus si tiene su la mascherina mentre sta solo nel mezzo di niente a duemila metri d’altitudine, come a quello che per timore dell’effetto collaterale non si vaccina, farei la stessa domanda: «Ma di che hai paura, alla fine? Guarda che il peggio che ti capita è che muori».
L’uno e l’altro avrebbero diritto di rispondermi che fino a prova contraria la loro vita è loro, non mia, e a decidere quanto valga sono loro, non io. Risposte indiscutibili l’una e l’altra. Ma senza scomodare la retorica, effettivamente inascoltabile, sul dovere di proteggere i terzi (quello che forse non giustifica la mascherina sul sentiero alpino; quello che forse giustifica l’offerta del braccio alla siringa), resta che il rischio di ammalarsi, per il gitante montano, è di molto inferiore rispetto a quello di beccarsi un fulmine, mentre chi non si vaccina elude un rischio ben più remoto a paragone di quello cui tranquillamente va incontro salendo in macchina.
Entrambi, nuovamente, potrebbero replicare che sta a loro, non a me, decidere di cosa aver paura: e nuovamente avrebbero entrambi ragione. Ma non è interessante capire qual è la mozione profonda che li porta in un caso a tenere in altissimo il valore della propria vita, quando essa sostanzialmente non è a rischio, mentre se la giocano in circostanze che molto più facilmente vi attentano?
A me sembra molto interessante, e credo che la spiegazione sia questa: tengono più alla propria vita per come potrebbe essere (una vita senza virus e senza effetti collaterali), e meno alla propria vita per come è (che non è una vita senza incidenti stradali e senza fulmini).
Temono che muoia la vita che non possono vivere. Temono di perdere la vita che non posseggono. La mascherina sui monti e la scelta sierofobica sono l’opposto effetto di una stessa causa, e cioè la paura della morte in una vita immaginaria: la vita immaginaria in cui il virus è trasmesso dai muschi e dalle bacche; la vita immaginaria in cui la trombosi è più pericolosa del virus.