Terra bruciataGli incendi in Salento, alimentati dalla Xylella e da anni di populismo

Nella punta estrema della Puglia i roghi sono solo l’ultimo effetto della desertificazione che affligge il territorio, caratterizzato dalla monocoltura olivicola. Nessuno rimuove gli ulivi malati, le normative regionali non bastano ad arginare le fiamme e spesso sono gli stessi proprietari ad appiccare il fuoco ai loro alberi

Photo/Valerie Gache

Brucia l’Italia e brucia il suo tacco, ancor più il Salento, quel lembo di Puglia che quasi tocca l’Albania. Vicino alle pajare in pietra, una sorta di trulli più rustici, la terra brulla abbonda di ulivi rinsecchiti ai lati della litoranea. Prima di cercare il mare, gli occhi si posano sugli alberi ammalati di Xylella, il batterio arrivato nel 2014, e sui cumuli di spazzatura ai lati della strada. 

I rami sbilenchi trasformano le campagne in terra di nessuno e diventano torce in grado di propagare le fiamme, alimentate dalle temperature elevate e le raffiche di vento. La Xylella ha infettato 21 milioni di piante, il 40% del territorio regionale, lasciando agli abitanti il sapore amaro di essere rimasti soli ad affrontare una tragedia. «A quai arde tuttu», li senti dire, mentre i proprietari degli ulivi intatti benedicono a voce bassa la loro buona sorte.

Ma troppi campi vanno in fumo e per questo Chiara Idrusa Scrimieri ha deciso di fondare il gruppo Facebook “Salviamo gli ulivi del Salento” e dar vita a una petizione su Change.org che finora ha raccolto 36 mila firme. «Chiediamo politiche rurali e agricole capaci di incentivare chi vuole tornare a coltivare la terra tutelando la biodiversità», commenta. 

La penisola salentina brucia da maggio, con 400 richieste di intervento registrate in un solo mese. I due incendi più grandi sono avvenuti nel comune di Otranto, a Porto Badisco e nella zona che circonda i laghi Alimini, località definite «paradiso dei turisti». Simbologia spicciola.

Questi posti non sono dei visitatori saltuari, ma degli abitanti che ogni estate guardano la loro terra bruciare, spenta a fatica da vigili del fuoco cronicamente sotto organico. A Porto Badisco sono bruciati 45 ettari di macchia mediterranea, agli Alimini 30 di area boschiva. Una perdita per la Puglia, la regione che dispone del numero più basso di foreste su tutta la superficie nazionale (9,7 per cento).

Secondo i dati diffusi da Coldiretti, nell’estate 2021 gli incendi sono triplicati. Calabria, Sicilia e Sardegna hanno pagato il prezzo più alto, vite ed ettari divorati dalle fiamme. Una situazione drammatica che ha indotto il premier Mario Draghi a parlare di «un piano straordinario di rimboschimento e messa in sicurezza del territorio», come scrive l’agenzia di stampa Agi. Certo il Salento non registra i numeri di queste regioni, ma in Italia detiene un triste primato di cui la Xylella e gli incendi sono solo l’ultima manifestazione. 

Dopo secoli di sfruttamento del suolo causati dalla monocoltura degli ulivi, spesso coltivati con metodi intensivi, la penisola salentina è a rischio desertificazione. Lo spiega Nico Catalano, agronomo e consulente del Dipartimento Agricoltura Sviluppo Rurale e Ambientale della regione. Una storia vecchia tramandata negli anni, quando la Puglia era “granaio d’Italia” al nord e produttrice di olio al sud. 

Gli agricoltori, lasciati soli, non se ne fanno nulla della terra sterile, quindi capita appicchino le fiamme per disperazione. Come denuncia Coldiretti: «Non è stata data ancora attuazione agli interventi finanziati che prevedono la rimozione degli ulivi secchi». E allora danno fuoco per disfarsi dei monconi di alberi, trasformare i fondi svalutati in distese di pannelli solari, riscattare il premio assicurativo. Altre volte, i roghi sono la vendetta di screzi tra vicini. 

La politica si muove a rilento, impantanata nelle visioni divergenti di associazioni ambientaliste, sindacati e società civile. Anche Coldiretti segnala il ritardo e in un comunicato si augura che «la portata epocale del problema stimoli l’impegno comune dei Ministeri alle Politiche Agricole, all’Ambiente e ai Beni Culturali, di concerto con la regione, per riparare i danni ambientali, paesaggistici e socioeconomici a carico del Salento e dell’intera Puglia». 

Nel panorama confuso, neppure le leggi regionali agiscono da deterrente. Per limitare il propagarsi di roghi incontrollati, un provvedimento del 2016 impedisce di bruciare le stoppie tra il primo giugno e il 30 settembre. Nei mesi restanti è possibile farlo in piccole quantità, con i mezzi appropriati e in caso di vento e calore non eccessivi. A luglio poi la Commissione Agricoltura ha approvato la proposta di legge per la pianificazione del “fuoco prescritto”, una tecnica di applicazione consapevole delle fiamme effettuata da personale esperto. Eppure, le colonne di fumo continuano ad alzarsi dalle campagne e continuano a prendere fuoco i monconi di ulivo. 

A pochi chilometri i turisti si godono il mare, occupando temporaneamente quei “paradisi” che l’incuria rischia di distruggere. Finirà agosto e andranno via i bagnanti, così come ritorneranno in Svizzera le famiglie di emigranti. E il Salento che brucia sarà di nuovo una questione privata, tra una terra disgraziata e gli abitanti che hanno scelto di non lasciarla.

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