Pop storyIn questa epoca delle infinite distrazioni la musica è “meno”, ma non per questo è “peggio”

Per decenni le rockstar e i loro dischi sono stati centrali nei consumi culturali. Ora non lo sono più. E va bene anche così (con buona pace della setta dei suprematisti dell’ascolto). Da Linkiesta Magazine in edicola, in libreria o su Linkiesta Store

Illustrazione di Fulvia Monguzzi

Provocazioni: il primo disco di Fulminacci vale quanto l’esordio di Venditti-De Gregori. Francesco Bianconi ha la stessa intensità del migliore Fabrizio De André. Sentire Lucio Corsi evoca figure classiche paragonabili a quelle di Angelo Branduardi. Giancarlo Frigieri ha lo stesso via Emilia sound di Francesco Guccini e gronda altrettanta piadina, squaccherone e inquietudine. Ancora: i gorgheggi di Venerus stanno al presente quanto quelli di Baglioni all’Italia analogica del Ciao Piaggio.

Certo: solennità, intendimenti e aspettative erano diversi. Ma vogliamo ragionare sul fatto che non è questione di meglio e peggio, bravi e meno bravi, promossi e bocciati. È soltanto che le cose cambiano. Cambia la musica e la sua decadenza va inquadrata nella scala dei valori del presente. Attenzione: il fenomeno non è rilevato dai più giovani, che ovviamente si limitano a prendere ciò che gli serve dall’offerta disponibile. Ma è sottolineata da quelli venuti prima, per i quali la musica, per una porzione determinante della vita, ha rappresentato il cuore della passione, dell’espressione, della creatività, oltre che il veicolo prediletto per la rappresentazione e il messaggio.

La cosa ancor più sorprendente è che la sparizione dal centro non riguarda solo i venerabili e il loro bagaglio di pensosa, artistica e forse datata rappresentazione. Investe anche i vertici del pop, la musica fatta per intrattenere e divertire, uno degli ultimi bastioni del divismo in remissione (per come lo conoscevamo nel XX secolo): nomi a caso come Lady Gaga, Ariana Grande, Justin Timberlake, Ed Sheeran, Katy Perry, Taylor Swift, Drake, Kanye. Perfino Beyoncé. Tutti vedono restringersi la dilagante trasversalità degli esordi, il successo ecumenico. In una parola, il potere.

Anche le regine e i re del mainstream, si ridimensionano assumendo il formato di nicchie. Grandi nicchie, ma pur sempre nicchie. Chi continua a seguire questo e chi quello, ma con un’intermittenza e un distacco psicologico in aumento, confinando sempre più l’artista nell’occasionalità del suo prodotto, negandogli l’immanenza conosciuta dai predecessori. Insomma, diventano un’offerta tra le altre, incastonati tra una serie tv e un videogioco. Che non è quanto è prescritto a una superstar globale. Che non può mai stare in una nicchia, deve imperare. Chiedetelo a Madonna, o a Mick Jagger. Non è più così. Il villaggio della musica, coi suoi quartieri, le sue aree, i suoi mezzi di comunicazione, i suoi mercati e il suo governo, si desertifica, diventando una provincia tra le tante dello stato mentale collettivo.

E non può esserci ragionamento più tristemente autoreferenziale di quello che attribuisce la mutazione al valore degli artisti, alla portata dei loro caratteri o alla capacità di attenzione e alla voglia di coinvolgimento del pubblico. È un confronto irrispettoso, tristemente nostalgico. E distruttivo, perché deprime e distoglie, ma non focalizza né esplora.

Un piccolo racconto per far avanzare il discorso: nell’Italia metropolitana dei primi anni Settanta, ovvero nell’ormai consacrato “momento d’oro del rock” – musica che più di ogni altra s’è guadagnata i gradi di descrizione di una disagiata condizione condivisa – i dischi “d’importazione” arrivavano nei migliori negozi il sabato mattina, pronti a essere messi negli scaffali per lo shopping giovanile del pomeriggio. I bene informati lo sapevano e quando era alle viste un’uscita particolarmente attesa, montavano fisicamente la guardia alle serrande prima dell’apertura pomeridiana.

Fermiamo le macchine: abbiamo appena descritto uno scenario che comprende dati bizzarri, proiettati sul presente – i negozi che chiudevano a ora di pranzo, la clientela appassionata che si muoveva di persona nella speranza di aggiudicarsi una copia del disco atteso, la distinzione dei dischi d’“importazione”, fabbricati nei Paesi d’origine e spediti in anticipo sulla versione nazionale (esemplari di qualità peggiore della stessa opera).

Ma torniamo al negozio – chessò Buscemi a Milano, Carù a Gallarate, Contempo a Firenze, Millerecords a Roma. I commessi, con una cerimonia sacerdotale, estraggono i dischi dalle casse e aprono le porte ai clienti. L’atmosfera è elettrizzante, ma interviene un altro problema. I dischi costano e, dal momento che sono belli e desiderabili (al tempo del vinile sono oggetti innegabilmente sexy), è inevitabile fare delle scelte: se compri una cosa, rinunci a un’altra, e conviene scegliere bene.

Certo, c’è la consolazione che tutto ciò si fa in compagnia, e se io compro un disco spero che il mio amico sia disposto a prendere quello a cui rinuncio, ma servirà una trattativa. Finalmente si versano i risparmi settimanali ed è subito il momento di correre in una casa dove sia accessibile il migliore impianto ad alta fedeltà possibile. Ci si sposta in branco e si accettano ritardatari e imbucati, desiderosi di nutrire, a spese nostre, le loro orecchie delle nuove delizie. Intanto, la spoliazione dell’album dalla plastica che l’avvolge rasenta l’erotismo. Molti dei cultori dell’epoca utilizzano apposite buste di cellophane per proteggere le copertine, ma si tratta di una scelta individuale, rispettata e da sempre esclusa dal dibattito.

Poniamo, per esempio, che il disco appena acquistato sia “Déjà Vu”, sospiratissimo album del supergruppo Crosby, Stills, Nash & Young, che fece innamorare il mondo col suo set a Woodstock. Bene: vorrei saper descrivere cosa fosse il primo ascolto di quel disco (e poi il secondo, il terzo e il quarto), per il gruppo di amici seduti per terra, in un appartamento italiano del 1970 – mezzo secolo fa. Le note di ogni singola canzone colano in quel consesso come lava incandescente, provocavano emozioni, reazioni e subito dopo discussioni, che costituiscono semplicemente l’inizio di dibattiti infiniti. I quattro americani diffondevano la loro visione del mondo, estetica, etica, politica e anche sentimentale e chi ascoltava se n’appropriava, la faceva sua, apriva la conversazione con le canzoni, con quei suoni, quelle voci. E il confronto si protraeva per settimane e mesi, arricchendosi di centinaia di ascolti, infinite disquisizioni, ragionamenti, imitazioni, identificazioni (la psichedelia di Crosby, l’on the road di Stills, il Laurel Canyon di Nash, il lirismo di Young, lo smagliante splendore dell’insieme).

Questo era il senso della musica: prima. Valeva per una miriade di casi e di occasioni, fosse David Bowie, o Bruce Springsteen, o Bob Dylan e giù fino ai Nirvana e alle primordiali forme del rap e a tante cose che uscivano dalle sale di registrazioni italiane. Era musica bellissima, vero, ma soprattutto era l’aria dei tempi. Era lo stile di vita. Erano i poli di attrazione.

Ora provate a misurare che cosa sia rimasto oggi dei rituali appena sommariamente descritti, in un’epoca contraddistinta dalla frantumazione degli interessi, dall’avvento di modalità di relazione, comunicazione e informazione completamente diverse. Non troverete più niente e questo molto prima d’arrivare ad aprire il famoso disco, che peraltro non esiste più, non è più materia, è pura digitalità e ha una caratteristica che, se la raccontassimo ai ragazzi raccolti attorno al 33 giri di “Déjà Vu”, suonerebbe come fantascienza: è tutto gratis! (Jay Z di recente, ragionando sul servizio Tidal di cui è comproprietario, ha detto: «L’acqua è gratis. Noi offriamo tutta la musica del mondo per 6 dollari al mese. Ma ora nessuno vuole pagare per la musica. Sarebbe come chiedergli di pagare l’acqua»).

La metamorfosi si è completata. Vivere da musicisti, paradossalmente, è diventato più complicato di prima. L’editorialista del New York Times Paul Krugman, in un convegno al festival South by Southwest, si è lasciato andare a una significativa esclamazione: «Non riesco a capire come le band oggi possano sopravvivere!». Misericordia in stile baby boomer. La sostanza del discorso è che ora la musica è una cosa diversa da quel che era ieri, quando nel punto più alto della sua parabola, costituiva il consumo culturale e d’intrattenimento più popolare del pianeta, e trasformava i suoi protagonisti in divinità.

Adesso, nell’epoca delle infinite distrazioni, è tutto semplicemente “meno”. Ma non per questo è “peggio”. Il tempo di chi ha attorno a vent’anni viene speso in altre direzioni – e poi, anche, per la musica, ma con aspettative e disponibilità più ridotte. Tentare la strada della musica come professione è una scelta rara, perché s’intuisce che sarebbe una faccenda lunga, che i riconoscimenti sono incerti e il “successo”, che adesso è il valore assoluto, è una questione complicata. Poi ci sono altri fattori in gioco, come la tecnologia che permette a tutti di produrre musica o i servizi streaming accessibili a chiunque si svegli la mattina con l’idea di far sentire il suo motivetto semplicemente… a tutto il mondo! Bisogna azzerare valori e traiettorie, riconsiderare tutto daccapo.

Ciò che si fa con la musica, si può fare con un’infinità di altri linguaggi, strumenti e veicoli. Quello di oggi è un mondo affollato, dominato da fretta nevrotica, da un’accelerazione parossistica, dal perenne inseguimento del nuovo. Anche per questo ai giovani musicisti del presente, bisogna guardare con simpatia. Hanno un sacco di cose da raccontare, ma sono sommersi nel turbinante rumore centrifugo che rende questi tempi inafferrabili, perfino indescrivibili.

Certo, poi c’è ancora chi torna a casa, spegne il cellulare, accende il prezioso hi-fi comprato a leasing ed estrae dalla libreria la venerabile copia originale di “Déjà Vu”. Lo mette su, siede in poltrona e lascia viaggiare la mente. Vede la California e coltiva un certo disprezzo per i suoni del presente. Sono i suprematisti della musica. Una setta. Lasciamoli stare. Ma prendiamo educatamente le distanze.

Questo articolo di Stefano Pistolini è stato pubblicato sul nuovo numero di Linkiesta Magazine, in edicola a Milano e a Roma e nelle migliori librerie indipendenti d’Italia.
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