Il futuro delle pensioni dopo quota 100 da un lato. E quello del reddito di cittadinanza dall’altro. Il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, a pochi giorni dall’avvio ufficiale sul tavolo delle pensioni e mentre Renzi e Salvini partono all’attacco del sussidio grillino, in un’intervista al Messaggero dà la sua ricetta. Sulla previdenza dice che serve una flessibilità compatibile con le esigenze dei conti pubblici. Mentre «se il reddito ha un problema, riguarda i centri per l’impiego e non il reddito stesso», spiega ammettendo il fallimento del progetto grillino sul fronte delle politiche attive del lavoro. Ma se gli albergatori non trovano manodopera non è colpa del sussidio Cinque Stelle: secondo Tridico, sono stati i bonus agli stagionali ad aver scoraggiato il lavoro.
Partiamo dalle pensioni. L’anticipo di Quota 100, che terminerà il 31 dicembre, è «stato usato soprattutto da lavoratori maschi, nel settore pubblico e con redditi medio alti. E non sembra che abbia prodotto l’auspicato ricambio generazionale», spiega Tridico. Ma «per il dopo non partiamo da zero. Esistono già nel sistema varie forme di anticipo, sulle quali bisognerebbe concentrarsi. I sindacati dicono di volere la flessibilità e propongono Quota, 41 ma questa in realtà è una forma di rigidità, come del resto lo era Quota 100. Se si stabilisce una quota senza differenziare rispetto a lavori concreti e carriere viene fuori una misura iniqua. Quota 41 è iniqua ad esempio per le donne o i gravosi, oltre a essere molto costosa per il bilancio dello Stato».
Secondo Tridico, la misura che propongono i sindacati potrebbe costare «fino a 9 miliardi l’anno, partendo da oltre 4 subito. Abbiamo uno strumento, l’Ape sociale, che andrebbe rafforzato facendo entrare altre categorie degne di protezione, ma sulle base dell’effettiva gravosità delle singole mansioni. E questo all’interno di un sistema contributivo che ormai è la regola. Nella visione della flessibilità io avevo proposto anche un doppio canale, uscita a 63 anni con la quota contributiva mentre la pensione completa scatterebbe ai 67. Un meccanismo del genere porterebbe sostenibilità per i conti pubblici e flessibilità; ma se non lo si adotta allora la via è quella degli interventi chirurgici come appunto l’estensione dell’Ape sociale e delle regole per i lavori usuranti».
Per i giovani però il problema sarà avere pensioni adeguate. Tridico propone il «riscatto gratuito della laurea e dei periodi formativi, per compensare i buchi che ci possono essere nella carriera». E di pensare anche «alla pensione di garanzia, che non pone un problema immediato di copertura finanziaria visto che scatterebbe tra trent’anni o più. Poi servono interventi per le lavoratrici, che tengano conto dello scenario demografico: quindi sgravi contributivi legati alla maternità, come avviene in Germania».
Altra questione cruciale: il reddito di cittadinanza, di cui Tridico è sempre stato un fervente sostenitore. «Se il reddito ha un problema, riguarda i centri per l’impiego e non il reddito stesso», dice il presidente dell’Inps. «Bisognerebbe concentrarsi su quelli e sui meccanismi che già esistono all’interno dello strumento, come la formazione e l’inclusione sociale, i Puc gestiti dai Comuni che andrebbero rafforzati. Noi oggi abbiamo quasi due milioni di beneficiari di Naspi, che dovrebbero essere il primo bacino in cui un datore di lavoro cerca. Il reddito di cittadinanza invece è un trattamento minimo, che diamo ai lavoratori che non raggiungono una certa soglia di reddito, ma anche a disabili, pensionati, ragazzi sotto i 18 anni. Per i due terzi sono persone che per definizione non possono lavorare. Per il restante terzo, una parte riceve un’integrazione al reddito di lavoro, altri non risultano nei nostri archivi e quindi non hanno mai lavorato: erano ai margini della società. Il valore medio è di 550 euro al mese per nucleo familiare, che non rappresenta certo uno spiazzamento rispetto al mercato del lavoro».
E se esercenti e albergatori si lamentano di non trovare mano d’opera, non è colpa del redito grillino, dice Tridico: «Ai lavoratori stagionali, con le varie tranches, sono stati dati in tutto 8.600 euro di bonus a condizione di essere disoccupati. Semmai è stato questo sussidio che può aver scoraggiato il lavoro».
Dopo i dati positivi di giugno sul lavoro, ora si cerca di capire quale sarà il trend dopo la fine del blocco dei licenziamenti. «Dai dati che abbiamo sulle entrate contributive ci aspettiamo anche a luglio lo stesso trend positivo registrato a maggio e a giugno», dice Tridico. «Le entrate contributive sono il vero termometro dell’attività economica: le aziende stanno rilanciando, assumono e pagano i contributi. A fine anno, se non succede qualcos’altro, possiamo raggiungere il livello del 2019».
Ultima questione: il salario minimo. Tridico dice che «è uno degli strumenti che manca in Italia, per non aggravare gli squilibri in un Paese in cui c’è una componente di contrattazione non rappresentativa, che punta al dumping salariale. Un importo tra 8 e 9 euro lordi l’ora, in linea con le indicazioni della commissione europea, includerebbe tra il 15 e il 26 per cento dei lavoratori. Si sposterebbero 4-5 miliardi di euro sul salario aumentando anche il gettito fiscale per lo Stato». L’idea però, oltre che alle imprese, non piace troppo nemmeno ai sindacati. «Per le imprese si può pensare ad una contropartita: abbiamo alcune aliquote contributive minori, sulla Naspi o sull’assegno al nucleo familiare (destinato tra l’altro ad essere riassorbito in quello universale) che valgono 3-4 miliardi. Potrebbero essere fiscalizzate e la riduzione di costo compenserebbe le imprese», propone Tridico. «Ai sindacati dico che la contrattazione ha svolto una funzione importante, ma oggi molti lavoratori ne restano fuori, proprio nei settori in cui i salari sono molto bassi. Quindi il salario minimo non è un’alternativa alla contrattazione, come dimostra il modello tedesco».