Il fardello della vergognaPerché i giornali americani sono durissimi con Joe Biden

I principali quotidiani sono unanimi nel criticare le scelte dell’Amministrazione democratica, che avrebbe potuto evitare una ritirata così caotica ma ha deciso di non farlo e di difenderla con un discorso del presidente alla nazione

AP Photo/Rahmat Gul

Dopo la caduta di Kabul i principali quotidiani americani hanno pubblicato editoriali molto duri nei confronti di Joe Biden, quasi unanimemente ritenuto responsabile della disordinata ritirata americana dall’Afghanistan.

Con una nota comune, inaudita nella storia recente del giornalismo americano, gli editori dei tre grandi quotidiani – New York Times, Washington Post e Wall Street Journal – hanno formalmente chiesto al presidente di facilitare la protezione e l’evacuazione del personale afghano che in questi anni ha lavorato fianco a fianco con i giornalisti americani.

I giudizi politici sulla scelta della Casa Bianca sono severi e non si sono attenuati dopo il discorso alla nazione con cui il presidente ha difeso la sua scelta di uscire dal teatro di guerra afghano.

Il New York Times, in un articolo firmato da David Sanger, accusa il Presidente di aver gestito in modo caotico e poco competente «l’umiliante atto finale» della guerra in Afghanistan, suggerendo implicitamente che il ritiro dal paese poteva finire in altro modo, soprattutto rispetto ai collaboratori degli Stati Uniti e degli alleati, che non sono stati tutelati in modo adeguato. 

Non solo, anche nella sconfitta militare dell’esercito afghano, l’Amministrazione ha delle responsabilità «Non c’era un meccanismo affidabile con cui i contractors potessero mantenere operativa l’aviazione afghana una volta partite le truppe regolari americane». Il giornalista americano riconosce che Biden non ha sbagliato da solo, e che i rapporti di intelligence non avevano previsto un’avanzata così rapida da parte talebana, e soprattutto un collasso repentino delle forze armate locali. 

Eppure, il presidente è in carica da sette mesi, aveva deciso anche grazie alla sua lunga esperienza in politica estera di concludere l’avventura in Afghanistan per concentrarsi su altre priorità, e avrebbe dovuto preparare in modo accurato il ritiro completo. E invece, scrive Senger, «Joe Biden sarà ricordato per aver sopravvalutato la forza dell’esercito afgano, e per non essersi mosso in fretta quando è diventato chiaro che lo scenario che gli era stato prospettato era sbagliato».

Secondo il Washington Post, che dedica alla ritirata americana un’analisi firmata da Aaron Blake, la reazione dell’Amministrazione Biden alle critiche ricevute in questi giorni è stata deludente: «Ci siamo trovati di fronte alla più classica strategia politica e diplomatica: di fronte a domande difficili, rispondi a una domanda diversa e correlata che inquadra il dibattito in modo più favorevole per te. C’era un forte consenso bipartisan sul ritiro! I presidenti di entrambi i partiti hanno cercato di farlo per anni!».

Gli uomini del presidente sono rimasti fedeli al copione: il ritiro era la cosa giusta da fare nonostante gli effetti collaterali. Secondo Blake, il punto della questione non è mai stato questo: tutti erano d’accordo sul fatto che la guerra e l’occupazione dovessero finire. Tuttavia, ciò su cui l’opinione pubblica avrebbe giudicato Biden, come sta facendo adesso, «riguardava il modo in cui è stato effettuato questo ritiro a lungo pianificato e a lungo cercato. E i risultati sono brutali per l’amministrazione Biden. Le sue dichiarazioni degli ultimi mesi su come sarebbe andato a finire si sono rivelate eccessivamente ottimiste e, in alcuni casi, completamente sbagliate. Anche per chi era convinto che le cose non sarebbero andate in modo liscio questo atteggiamento solleva enormi interrogativi su quanto l’Amministrazione fosse in sintonia con la situazione sul campo e quanto fosse preparata per una situazione come questa».

Insomma, un giornale molto influente che mette in discussione il punto centrale della narrazione dell’Amministrazione Biden, ovvero la sua competenza e la sua capacità di gestire situazioni complesse, soprattutto a livello internazionale e soprattutto rispetto ai metodi di Donald Trump, che avevano danneggiato la reputazione americana nel mondo.

Biden si è ostinato a negare paragoni tra Kabul e Saigon, ma le immagini che abbiamo visto in questi giorni gli danno torto, scrive Blake: «Abbiamo visto elicotteri evacuare personale americano come a Saigon, semplicemente non dal tetto dell’ambasciata ma da un eliporto. Ma forse la scena più forte è stata quella dell’aeroporto, quando decine di persone si sono aggrappate a un aereo americano in fase di decollo».

Anche il Wall Street Journal non risparmia critiche al presidente democratico, in un articolo firmato dall’editorial board che rispecchia la posizione “ufficiale” del quotidiano finanziario sulla vicenda. È forse il pezzo più duro pubblicato dalla grande stampa americana, e comincia in modo abbastanza esemplificativo: «Il comunicato di sabato, con cui il presidente Biden dimostra di lavarsene le mani dell’Afghanistan, merita di essere ricordato come uno dei più vergognosi della storia di un Commander in chief che deve condurre il ritiro delle sue Forze Armate».

Secondo gli autori, il presidente in questi giorni si è autoassolto, ha accusato il suo predecessore di avere creato questa situazione e addirittura ha «più o meno invitato i talebani a prendere il controllo del paese». Dopo aver ricordato che il Wall Street Journal è sempre stato costruttivo nei suoi confronti, e ha anche criticato alcune scelte di Donald Trump, l’editorial board ricorda che Biden aveva delle alternative. 

«Le giustificazioni date lo scorso sabato dal presidente Biden esemplificano la sua disonestà. “Tra uno, cinque o più anni la presenza militare americana non avrebbe fatto la differenza. Se l’esercito afgano non è capace o non vuole voluto mantenere sotto controllo il proprio paese noi possiamo poco”, ha spiegato. Ma gli afgani erano pronti a combattere e sopportare delle perdite con il supporto degli Stati Uniti e degli alleati Nato, specialmente con la loro copertura aerea. Poche migliaia di truppe regolari e contractors avrebbero fatto il loro dovere e impedito questa rotta».

Più in generale, secondo il Wall Street Journal la comunicazione del presidente americano è stata incoerente: «Sembra essere più critico con il suo predecessore che con i talebani. Ha passato i primi sette mesi del suo mandato a rovesciare la politica estera e interna tenuta da Donald Trump e però sull’Afghanistan sostiene di non aver potuto fare nulla». 

Anche sull’Atlantic si può leggere una durissima critica alla decisione di Joe Biden, stavolta concentrata sul tradimento nei confronti del popolo afgano e soprattutto delle migliaia di persone che hanno aiutato gli americani e gli alleati in questi venti anni. George Packer, giornalista di lungo corso della rivista, è piuttosto netto nell’attribuire gravi responsabilità all’Amministrazione in carica, colpevole di non «avere ascoltato gli avvertimenti sull’Afghanistan e di non avere agito con urgenza. Il fallimento dell’Amministrazione ha lasciato decine di migliaia di afgani a un destino terribile». Non solo, il giudizio è ancora più duro nei confronti del presidente, attaccato personalmente: «Questo tradimento vivrà nell’infamia, e il fardello della vergogna ricadrà sul presidente Joe Biden».

Anche secondo Packer, in effetti, la ritirata militare e l’evacuazione del personale civile afgano potevano essere gestite in modo diverso. Ciò che è accaduto non era affatto imprevedibile: «Per mesi, i membri del Congresso e le organizzazioni per i rifugiati, i veterani e i diritti umani hanno esortato l’amministrazione Biden a evacuare gli alleati afgani dell’America in caso di un’improvvisa emergenza. Per mesi, sulla stampa sono apparsi terribili avvertimenti. Le risposte dell’amministrazione, invece, non sono mai state adeguate».

Nonostante tutto questo, e nonostante le pressioni ricevute anche dal suo staff alla Casa Bianca, «Biden ha resistito, come se non volesse permettere all’Afghanistan di interferire con le sue priorità, come se avesse chiuso con l’Afghanistan nel momento in cui ha annunciato il ritiro di tutte le forze americane rimaste nel paese».

Di taglio diverso invece la riflessione di Tom Nichols, sempre sull’Atlantic. Secondo il giornalista, è impossibile non attribuire le colpe del disastro afgano anche e soprattutto ai cittadini americani. I paragoni con Vietnam e Corea non sono calzanti, ragiona Nichols: «Quello che è accaduto in quelle due guerre era oltre il controllo del pubblico americano. I ragazzi erano arruolati e mandati in battaglia, spesso in missioni nascoste all’opinione pubblica. In Afghanistan le cose sono state diverse. In primo luogo la guerra è stata molto popolare ed è stata condotta senza nascondere nulla. Il problema è stato che, dopo l’iniziale euforia, il pubblico non era molto interessato: la copertura della carta stampata è rimasta solida, quella delle tv via cavo no».

E quindi, per quanto possa essere facile e di conforto criticare Donald Trump o Barack Obama, gli americani devono semplicemente guardare loro stessi: «Abbiamo messo i nostri leader politici di fronte a un dilemma politico impossibile da vincere. Se avessero scelto di andarsene, sarebbero diventati dei codardi che abbandonano l’Afghanistan. Se avessero scelto di restare, sarebbero diventati dei guerrafondai interessati a perseguire “guerre senza fine”».

La verità, conclude il giornalista dell’Atlantic, è che «non esisteva una versione di “basta con la guerra senza fine” che non si concludesse con la caduta di Kabul. Pensavamo che potesse esistere, come nazione, perché volevamo crederci».

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