Possibile che nella grande Cgil non ci sia uno che alzi la mano e dica pubblicamente che sulla questione del green pass Maurizio Landini ha preso una strada incomprensibile, evitando di dire l’unica cosa che andasse detta, che bisogna vaccinarsi, punto? In Cgil si discute – abbastanza – ma i contrasti o le semplici diversità di vedute restano sempre tra le mura di Corso d’Italia, in un perpetuarsi fuori tempo del centralismo democratico che in Cgil non chiamano così ma “senso di responsabilità”: e però se tu neghi pubblicità a un’opinione diversa, quella opinione non sarà mai oggetto di una discussione di massa ma tutt’al più ristretta ai gruppi dirigenti. E dunque ogni democratico ha diritto di chiedere cosa sia diventata negli anni la democrazia interna del sindacato, un tempo scuola di memorabili dibattiti, magari felpato, che irrobustirono non solo il sindacato ma la democrazia nel suo complesso.
Intendiamoci, la colpa non è (solo) di Landini che a suo tempo, quando era segretario della Fiom, scontò sulla propria pelle il peso enorme dell’essere in minoranza in un organismo come la Cgil di Susanna Camusso, vera responsabile, dopo il compianto Guglielmo Epifani che esercitò una direzione molto dura, dell’involuzione burocratico-autoritaria del sindacato più forte del Paese.
Solo che oggi è lui a fare la stessa cosa con i bancari e altre categorie più riformiste come i trasporti e gli edili di Alessandro Genovesi costrette ad adeguarsi. I tempi di Luciano Lama, Bruno Trentin, Fausto Bertinotti, Ottaviano Del Turco, Sergio Garavini, Sergio Cofferati, Claudio Sabattini, tutta gente di vario orientamento ma di assoluto livello sono lontanissimi: paradossalmente, si era più liberi quando c’erano le componenti. Oggi prevalgono pigrizie e tornaconti, ovviamente insieme a sincere opinioni in perfetta sintonia con quella del segretario generale, e nessuno potrà mai mettere tra parentesi il ruolo insostituibile di attivisti, delegati e dirigenti nella difesa dei diritti dei lavoratori.
Ma anche questo ritornello non basta più. La verità è che dietro il comando del leader di turno spariscono nel lago buio del dissenso le posizioni più riformiste come quelle di Vincenzo Colla, che sfidò al congresso Landini su posizioni meno urlate e demagogiche, o quelle – e qui parliamo di una Cisl progressivamente sparita dal discorso pubblico e di fatto a rimorchio della Cgil – di Marco Bentivogli nell’epoca di un’altra direzione autoritaria, quella di Annamaria Furlan. Non si ha il coraggio di aprire un vero percorso che porti al sindacato unico perché tre centrali distinte sono più “convenienti” da tanti punti di vista malgrado l’evidente inutilità di tre sindacati che dicono le stesse cose.
Con la scusa dell’autonomia per la mancata applicazione dell’articolo 39 sono consentiti al sindacato comportamenti politici e amministrativi non permessi a nessun partito. La trasparenza non è assicurata. Ma soprattutto la sensazione generale è che si abbia paura di contestare il segretario. Per cercare brandelli di dialettica interna bisogna affidarsi a cronisti sindacali di lunga esperienza come Nunzia Penelope, che ieri sul Foglio ha raccontato di una riunione svoltasi in Cgil martedì scorso nella quale sono emersi seri dubbi sulla posizione di Landini sul green pass che «sta creando confusione tra i lavoratori», una critica che per un sindacalista è la più dura che si possa ricevere. E per forza ora si pensa ad un qualche aggiustamento, quando la frittata ormai è fatta.
Di fronte alla straordinarietà della situazione, un tempo i sindacati e soprattutto la Cgil avrebbero allestito una mostruosa macchina organizzativa per portare fisicamente i lavoratori a vaccinarsi, avrebbero costruito una grande campagna d’informazione spiegando le ragioni pro vax, e avrebbero anche preso qualche provvedimento contro quei loro iscritti che a vaccinarsi non ci pensano proprio. Pare di vederli i Trentin, i Galli, i Marini, i Carniti, i Franco Bentivogli, i Benvenuto, gli Antoniazzi, i Del Turco – per non parlare di Luciano Lama, il più autorevole di tutti – e le centinaia di quadri seri e preparati davanti ai cancelli, negli uffici, nelle scuole a parlare, a spiegare, a dar battaglia, magari a prendersi qualche insulto e qualche sputo. Non è un caso se a parlare criticamente in questi giorni sono stati i più “anziani” come Savino Pezzotta o (ancora dall’articolo di Penelope) Paolo Pirani, della Uiltec, le categorie dell’industria: «Occorreva muoversi prima, dir che siamo a favore dei vaccini e ricontrattare in questa ottica i protocolli».
Non c’è coraggio a Corso d’Italia, fortino assediato da temi e tempi nuovi che non varcano quella vecchia entrata di vetro, predominando piuttosto il copione landiniano dell’urlare in televisione e continuamente chiedere tavoli di confronto che si susseguono spesso con scarsi risultati e soprattutto con l’annuncio di nuovi incontri. C’è un’evidente problema di direzione politica se gli operai continuano a votare a destra e i giovani nemmeno sanno che esiste, il caro vecchio sindacato. Che è pur sempre un’infrastruttura forte del nostro sistema. Almeno finora. Per questo, la crisi della democrazia nel sindacato è un problema per la democrazia italiana.