Lia Quartapelle, deputata e responsabile Affari internazionali ed europei del Partito democratico, riflette da giorni sulle conseguenze del ritiro americano dall’Afghanistan. I fatti, seguiti dalle parole di Biden, dice, marcano una nuova fase per la politica estera italiana di cui forse l’opinione pubblica non è ancora cosciente.
È stata sorpresa dalla rapidità della caduta di Kabul e dal discorso del presidente Biden?
Ho riflettuto molto, mi ha colpito la facilità con cui in poche ore siano stati cancellati vent’anni di impegno senza sparare un colpo. Mi chiedo se nella storia dell’occidente possano trovarsi disfatte di proporzioni simili, e francamente non condivido i paragoni con il Vietnam: lì la guerra è stata persa dagli Stati Uniti, che però hanno combattuto. Qui è accaduta una cosa diversa, abbiamo abbandonato il campo. O meglio, gli americani l’hanno fatto, e questo approfondisce il solco tra Europa e Stati Uniti, sentire un presidente americano dire che non combatterà più per gli altri è una cosa nuova, e se avessero ragionato così anche settanta anni fa, di fronte all’avanzata dei nazisti?
Nel suo discorso, Joe Biden si è rivolto soltanto agli americani, non ha speso parole né per gli afgani né per gli alleati della Nato. Era stato eletto promettendo «America is back», questa narrazione si è già sgretolata?
Dopo l’elezione di Biden eravamo convinti che due cose sarebbero cambiate. Sulla prima le aspettative sono state mantenute, perché c’è stato un effettivo ritorno americano ai tavoli multilaterali e nelle organizzazioni internazionali. Sulla seconda invece le aspettative sono deluse, perché pensavamo di poter contare sul ritorno dell’America come potenza guida morale, e mi sembra evidente che non possiamo. Questo cambia tutto, è una cesura storica e ci pone un interrogativo: come ci comportiamo in altri teatri vicini all’Unione europea che hanno bisogno del nostro aiuto? In Afghanistan era difficile esportare la democrazia, ma ci sono altri posti dove non è così difficile, dove esiste un livello socioeconomico elevato, il rispetto delle donne, e serve semplicemente stabilità e sicurezza. Che facciamo, abbandoniamo la Bielorussia al suo destino?
Joe Biden sembra dire questo, il ruolo dell’occidente non deve essere quello di interferire. Un approccio molto diverso da solito.
E infatti il comportamento americano fa esplodere una serie di domande e ci mette di fronte alle contraddizioni della nostra politica estera. Poniamola in modo diverso da esportare la democrazia, mettiamola così: con quali strumenti sosteniamo i processi democratici nel mondo? Perché esistono e hanno bisogno di una mano. Biden dichiara di volersi interessare al mondo in funzione antiterrorismo, e può dirlo perché gli Stati Uniti non hanno un estero vicino problematico. Per noi europei non è la stessa cosa, non possiamo cavarcela facendo attacchi mirati con i droni, dobbiamo investire seriamente nei processi democratici e di pace.
In poche parole, dobbiamo accettare di assumerci maggiori responsabilità per tutelare i nostri interessi?
Faccio un esempio, noi in questi anni ci siamo sempre molto fidati delle letture dell’intelligence americana nelle nostre decisioni di politica estera, e i nostri sistemi di sicurezza sono sempre più integrati. Dopo la lettura profondamente sbagliata sull’Afghanistan possiamo ancora farlo? Forse dobbiamo farcene carico.
Però farsene carico vuol dire in primo luogo definire il nostro interesse nazionale, in secondo luogo dedicare più risorse, in terzo luogo cambiare la nostra cultura strategica, che è appunto quella di affidarci completamente agli americani. Sono cambiamenti complessi…
Certo, e infatti la cosa più preoccupante è il livello del nostro dibattito pubblico. Ieri parlano alla nazione Joe Biden, Angela Merkel ed Emmanuel Macron, capi di Stato e di governo di paesi dove la questione della politica estera è molto importante, ha un peso notevole nell’agenda politica. In Italia questa vicenda si condensa nella polemica sul ministro degli Esteri in vacanza al mare, che mi sembra il tema meno rilevante della faccenda, con tutto il rispetto. Il nostro dibattito è sottosviluppato sulle questioni di politica estera, la nostra politica si produce in commenti da bar.
Il Partito democratico ha chiesto corridoi umanitari europei, ma non ha spiegato come intende concretamente crearli, oltre al fatto che Palazzo Chigi, Farnesina e Difesa hanno fatto sapere in modo informale che una questione del genere non è al momento in agenda. Ci può spiegare la vostra posizione? Non rischia di essere una dichiarazione astratta e poco praticabile?
Gli altri paesi, come Germania e Canada, hanno deciso di evacuare attivisti, giornalisti e donne, non soltanto gli interpreti delle forze armate. Noi chiediamo questo, facciamo tutto il possibile per portare a casa anche altre persone, la linea è “salviamo chiunque riusciamo a salvare”, poi ragioniamo su come affrontare i prossimi mesi. L’Unione europea deve cominciare a discutere, non possiamo trovarci a dover gestire una pressione migratoria assolutamente prevedibile in modo frettoloso quando arriverà, non possiamo litigare con Austria e Ungheria quando tra sei mesi potrebbero chiudere la rotta balcanica tanto ognuno fa per sé. Altrimenti tutti i proclami sulla commissione geopolitica e sul rilancio dell’Europa in politica estera sono appunto proclami, che ci portano poco lontano e ci rendono poco credibili.
L’Italia ha la maturità per capire che è arrivato il momento di occuparsi del proprio estero vicino? La Libia che è un fattore di instabilità, in Sahel la situazione è sempre meno controllabile, e persino la Tunisia ora sembra entrata in una fase di involuzione democratica. Che fare?
È una domanda complessa, perché purtroppo come dimostra l’Afghanistan anche con risorse potenzialmente illimitate è impossibile generare dall’esterno processi politici che invece devono nascere in modo spontaneo per essere duraturi. Dopodiché va senz’altro ridefinito il nostro rapporto con le potenze della regione: che tipo di atteggiamento tenere con le monarchie del Golfo? Quello ambiguo della Francia o uno più franco? Ecco perché serve definire una sorta di interesse nazionale europeo.
Però l’interesse nazionale è appunto nazionale, è difficile tenere insieme l’interesse nazionale italiano con quello polacco o quello degli stati baltici…
Chiamiamolo allora interesse strategico europeo, che su alcune questioni esiste. Non va bene per nessuno in Europa un estero vicino che diventa focolaio di immigrazione incontrollata, terrorismo, traffico illegale. Questo è un tema su cui un accordo si può trovare, visto che la protezione americana viene meno per tutti, non soltanto per l’Italia. Altro esempio: è interesse comune impedire a potenze straniere di interferire con le nostre elezioni? A me sembra di sì.
La guerra in Afghanistan è stata fatta in nome della lotta all’Islam politico radicale. Abbiamo perso anche quella?
Noi non abbiamo capito bene come relazionarci con i paesi che sponsorizzano varie forme di risorgenza islamista. Per esempio, non sappiamo come comportarci con il Pakistan, che è il vero padrino dei talebani. È islam politico quello? Non so, forse è più uno Stato con cui è necessario sciogliere dei nodi. Torno sulle monarchie del golfo: che linea tenere sul rispetto dei diritti umani in Arabia Saudita ed Emirati arabi? Non mi sembra che ci sia una posizione comune in occidente sul tema. E poi non va dimenticata una cosa. Esistono stati retti da governi che invece sostengono di combattere l’islam politico, in particolare la fratellanza musulmana, come l’Egitto. Con questi regimi abbiamo un rapporto più semplice? Non mi sembra. Non è tanto l’islam politico che ci pone una sfida, secondo me, quanto una idea di statualità fondamentalista di stampo wahhabita rispetto alla quale siamo, lo ripeto, ambigui. La mia conclusione è amara: al momento non abbiamo le risorse morali, economiche e militari per affrontare queste questioni.