Le ultime settimane dominate dal racconto delle Olimpiadi, dello sforzo fisico e mentale, dell’impegno oltre ogni limite ci hanno ricordato che cosa significhi per un atleta poter rivendicare il titolo di migliore al mondo.
Per uno sportivo di qualsiasi disciplina una medaglia d’oro è un risultato che ne segnerà la carriera e la vita, in un modo o nell’altro. Ma allo stesso tempo una medaglia di altro metallo può avere un effetto molto diverso: un argento, il secondo gradino del podio, spesso è accompagnato dall’insoddisfazione di non aver fatto quel passo in più che serviva per l’oro. Eppure si tratta del secondo risultato più importante di tutti: ogni altro partecipante alla gara, tranne uno, è finito dietro.
«I Giochi olimpici insegnano come i risultati e il loro perseguimento influenzino la nostra felicità, e lo insegnano anche a quelli di noi che non competono per essere i migliori al mondo in nulla. Ciò che le Olimpiadi ci dicono è che,la speranza di successo, sebbene possa spingerci in avanti, presenta anche insidie che possono minare la soddisfazione di aver effettivamente raggiunto un risultato», scrive l’Atlantic in un articolo firmato da Joe Pinsker.
L’autore cita uno studio che ha analizzato i filmati delle Olimpiadi del 1992 a Barcellona: «Chi vinceva l’argento», spiega, «si dimostrava subito infelice, sia dopo la gara sia sul podio. Erano meno felici anche delle medaglie di bronzo».
La spiegazione, hanno teorizzato i ricercatori, era che gli atleti seguivano un ragionamento in negativo, guardando a ciò che avrebbe potuto essere, non a ciò che era effettivamente: i vincitori di medaglie d’argento si chiedevano quanto sarebbe stato bello vincere l’oro, mentre i vincitori di medaglie di bronzo stavano “solo” contemplando la delusione di non aver vinto affatto, magari perché sconfitti in semifinale.
Nel suo articolo Pinsker intervista Tom Gilovich, professore di psicologia alla Cornell University, chiedendogli come interpretare quelle informazioni e le reazioni emotive degli atleti: «Ogni tipo di approccio», dice Gilovich, «può avere vantaggi e svantaggi, non c’è un modo migliore di un altro, in assoluto. Chi tende a fare paragoni “al ribasso” può sentirsi meglio perché più bravo di qualcuno. I paragoni “al rialzo” possono essere scoraggianti, ma a volte possono motivare le persone spingendole a lavorare di più sulle cose a cui tengono. Ogni mentalità ha i suoi vantaggi e svantaggi, quindi un approccio prudente potrebbe essere quello di alternarle strategicamente tra loro».
Più difficile, invece, capire gli effetti a lungo termine dei risultati olimpici sulla psicologia degli atleti. Ma molti esperti ritengono che nel corso degli anni le delusioni sportive legate a una medaglia d’argento – che, va ricordato, è comunque un gran risultato – tendono a essere superate dalla stessa soddisfazione di essere andati ai Giochi.
Però, anche qui, il tempo necessario per assorbire una delusione su qualcosa a cui si tiene moltissimo potrebbe essere un po’ troppo lungo. Alle Olimpiadi del 1912 Abel Kiviat, americano che ha corso i 1.500 metri, era in testa fino a otto metri dal traguardo, solo allora un rivale britannico lo superò battendolo di un decimo di secondo. In un’intervista una volta ha detto: «Certi giorni mi sveglio e mi dico “cosa diavolo mi è successo?”». Solo che l’intervista era 70 anni dopo la gara, e Kiviat aveva 91 anni.
Gli studi però ci dicono anche come una medaglia d’oro non garantisca un appagamento duraturo. È quello che i ricercatori chiamano “adattamento edonico”: la felicità tende alla fine a tornare a un livello di base dopo che è successo qualcosa di positivo (o di negativo), indipendentemente dalla sua portata.
«Anche qualcosa di straordinario come ottenere un enorme aumento al lavoro; come incontrare l’amore della tua vita; come, potenzialmente, vincere una medaglia d’oro, viene normalizzata col tempo», si legge sull’Atlantic.
C’è poi un altro tema emerso prepotentemente durante questi Giochi di Tokyo. L’ossessione per la vittoria, la ricerca costante di una gratificazione nei risultati, l’ambizione dell’oro, può spronare, ma può anche drenare energie fisiche e mentali.
La vicenda di Simone Biles lo dimostra perfettamente. «Sento che non mi sto divertendo più come prima. So che questi sono i Giochi, volevo farli ma in realtà sto partecipando per altri, più che per me. Mi fa male nel profondo che fare ciò che amo mi sia stato portato via», ha detto la campionessa americana dopo il ritiro dalla competizione a squadre della ginnastica artistica femminile. La sua decisione, quindi, è uno strumento: non solo riguarda la sua salute fisica e mentale, ma protegge anche la sua relazione con lo sport che ama.
L’Atlantic offre anche un’altra chiave di lettura rispetto alla storia di Biles: «Per lei un’altra sfida, dopo aver vinto quattro medaglie d’oro nel 2016, è quella di dover entrare in gioco quando si è già al vertice, e quindi in un certo senso si compete per non perdere, che è più difficile rispetto a cercare semplicemente di arrivare più in alto che si può giocando per vincere». E lo stesso autore ricorda poi una dichiarazione di Mark Spitz, nuotatore statunitense vincitore di sette medaglie d’oro a Monaco nel 1972: «Prima della settima gara c’era un tipo di ansia diverso, pensavo: “Se gareggio sei volte e sei volte vinco sono un eroe. Ma se nuoto sette volte e vinco sei, sarò un fallimento”».
Non è un caso che negli ultimi anni molti atleti abbiano scelto di parlare apertamente della difficoltà nel reggere la pressione una volta raggiunto il massimo livello. Lo stesso Michael Phelps, probabilmente il miglior nuotatore di sempre, ha ammesso di aver sofferto di depressione dopo i primi grandi successi.
«Competere ai massimi livelli», si legge sull’Atlantic, «può far sentire alcuni atleti come se avessero raggiunto il picco e non avessero un prossimo obiettivo logico da perseguire. Per contrastare questa tendenza di solito conviene crearsi un nuovo impegno, un’attività diversa che crea uno scopo laterale, un obiettivo separato, in un altro ambito».
Questo non è valso solo per i grandi campioni che trionfano alle Olimpiadi: chiunque può sentirsi allo stesso modo dopo aver raggiunto un grande risultato, qualcosa per cui ha lavorato a lungo. In questo caso, conclude l’articolo, «la soluzione migliore può essere quella di usare i propri successi non per goderne da soli, ma per concentrarsi su altro: a soli 13 anni, la giapponese Momiji Nishiya ha vinto l’evento di street-skateboard femminile e adesso ha tutta la vita davanti, ma è difficile per lei dire che abbia raggiunto l’apice. E lo stesso vale per tutti noi: un grande traguardo è solo un momento nel tempo e puoi scegliere di riempire la tua vita con molto altro».