C’è qualcuno in buona fede che si sorprende per quanto è in corso a Kabul (delle altre città cadute in mano dei Talebani non si hanno notizie) in queste ore? Che gli studenti islamici avrebbero dilagato in tutto il Paese era chiaro anche a Doha, quando Mike Pompeo aveva tentato di mettere in piedi un negoziato-foglia di fico del ritiro americano. L’Europa era rimasta a guardare. Certo, allora alla Casa Bianca c’era Donald Trump, il quale non avrebbe prestato attenzione alle preoccupazioni dei governi europei.
The Donald sapeva benissimo che per zittire gli alleati sarebbe bastato chiedere loro quante divisioni fossero disposti a mettere in campo in mezzo a quelle rocce e a quelle montagne, a fianco dei soldati americani che erano colà da vent’anni in compagnia del contingente italiano. Ma quando Joe Biden disse alle cancellerie del Vecchio Continente «America is back sarebbe stato il momento opportuno per porre all’ordine del giorno anche la questione afghana, che per gli Stati Uniti costituiva un problema geopolitico, mentre per l’Unione europea si trattava di un ordigno ad esplosione umana vicino alla sue frontiere.
Biden ha tirato diritto e ha addirittura trasformato il ritiro in una disfatta, sotto gli occhi di tutto il mondo. È singolare che in Italia ci sia subito divisi su quale atteggiamento assumere nei confronti dei talebani e delle loro promesse di “moderazione” che vengono smentite – secondo le scene che raccontano i testimoni – da quanto avviene a telecamere spente. Premesso che non sarà la linea di condotta decisa dall’Italia a decidere l’orientamento della comunità internazionale, è tuttavia necessario che si arrivi (a partire dal G20 che è l’istanza più rappresentativa della nazioni) ad indirizzo comune che riguardi sia un piano coordinato di assistenza ai profughi, sia le iniziativa da adottare per la crisi.
Guai se non si stabilisse un fronte unico a livello internazionale a difesa dei diritti umani, anche se al club del G20 molti Stati non sanno neanche di che cosa si tratti. In ogni caso non sembrano esservi alternative. O si cambiano gli ordini e ci si avvale delle truppe che sono ancora sul territorio per costruire una forza in grado di combattere, magari invertendo la rotta e il carico dei ponti aerei, portando nuove truppe e mezzi. Il che non sarebbe impossibile visto che sono in atto focolai di resistenza a base tribale.
Oppure occorre rendersi conto che all’Occidente (se ancora esiste come impegno comune) resta una sola chance da giocare, purtroppo spendibile in una unica prospettiva: che i talebani abbiano interesse ad essere riconosciuti dalla comunità internazionale e che siano disposti in cambio a “concessioni” al popolo afgano. Si tratta comunque di percorsi piuttosto scoscesi e, per ora, assai poco credibili da realizzare con la rapidità che sarebbe necessaria. Ma gli errori si pagano, anche quando il conto viene mandato ad altri. Per lo meno, la si smetta di prendersela con la scorsa combattività dell’esercito regolare afghano. Se gli alleati degli Stati Uniti dovessero cavarsela da soli, in caso di aggressione, non ci sarebbero tante basi militari sparse per il mondo da tempi ben più lunghi dei vent’anni afghani.