Pacifismo a scroccoLa crisi afghana è la prova che il tempo della sicurezza gratis è finito

La disfatta in Afghanistan conferma il fatto che la neutralità strategico-militare dell’Unione europea e degli stati membri non è un’opzione sostenibile, in quanto l’ombrello militare degli Stati Uniti si è chiuso. L’esercito comune europeo non è più un’opzione, ma una necessità

AP Photo/Arshad Butt, File

I risultati del ritiro dall’Afghanistan delle truppe occidentali sono diventati nei media e tra i politici italiani, con rare e meritevoli eccezioni, l’occasione per discutere e giudicare solo le responsabilità e le colpe degli americani. Come se l’intervento del 2001, l’impegno militare successivo e il rovinoso disimpegno fosse stato deciso esclusivamente da Washington e non da una vasta coalizione, che comprendeva anche l’Italia.

La sola differenza tra la destra e la sinistra italiana è che la prima addebita a Obama e Biden e la seconda a Bush e a Trump le conseguenze del fallimento afghano e le responsabilità di un ventennio perduto, posto che possano considerarsi davvero perduti e non guadagnati vent’anni passati almeno con un simulacro di stato di diritto, assai preferibile per gli uomini e soprattutto per le donne afghane al prima e al dopo, cioè al passato della dominazione e al presente della rivincita talebana. In ogni caso, che si addossi il disastro ai repubblicani o ai democratici la tesi prevalente in Italia è comune: gli americani hanno sbagliato tutto e “noi” non c’entriamo. Italia e Europa, da tutti i punti di vista, non pervenuti e dunque non imputabili.

Al di là del fatto che è di per sé discutibile qualificare tutto quello che è avvenuto secondo le categorie dell’errore o della colpa, di fronte allo scenario che si sta aprendo – tra catastrofi umanitarie e destabilizzazioni planetarie ampiamente annunciate – l’argomento di quello che gli Stati Uniti hanno fatto dal 2001 a oggi occulta la questione centrale, che è cosa non hanno fatto (e hanno intenzione di continuare a non fare) tutti i suoi alleati democratici – Italia compresa – di fronte alle minacce alla stabilità internazionale e a un ordine mondiale slabbrato, su cui la ricucitura idealista del nation building non ha funzionato, ma che non sembra proprio trovare soluzioni più efficienti e efficaci (in una prospettiva, s’intende, occidentalista: per i cinesi, l’apocalisse afghana è un’opportunità).

Anche lasciando da parte la questione dei diritti umani, che ormai assume una declinazione oscenamente lacrimosa, come se l’ostentazione della costernazione e del dolore per la macelleria islamista guadagnasse la redenzione a quanti (italiani compresi) hanno giudicato troppo costoso continuare a sbarrare la strada ai macellai, la disfatta afghana è solo uno (e forse neppure il più significativo, perché geograficamente il meno prossimo) degli eventi recenti, che dovrebbero interrogare l’Italia e tutti i grandi stati membri dell’Ue sull’esigenza di iscrivere le politiche di difesa e sicurezza nell’agenda delle responsabilità comuni. L’esercito comune europeo non è più un sogno, ma una necessità.

Rispetto a emergenze che esplodono sull’uscio di casa, a partire dal bacino del Mediterraneo e dai confini orientali dell’Unione, è inutile illudersi di potere continuare a appaltare agli amici buoni le battaglie giuste e agli amici cattivi il lavoro sporco per la nostra sicurezza, sperando di risparmiare soldi, uomini e grane politiche e di proseguire il business as usual delle equidistanze salomoniche e delle equivicinanze paracule, amici di tutti e nemici di nessuno.

La neutralità strategico-militare dell’Ue e degli stati membri non è un’opzione sostenibile, perché è incompatibile con la difesa degli interessi nazionali e sovranazionali degli stati europei, non solo rispetto ai rischi di aggressione diretta e indiretta, ma anche a quelli di isolamento e marginalizzazione politica (e quindi economica) negli instabili equilibri di potenza del multipolarismo globale.

Per l’Italia e per gli altri stati dell’Ue un futuro che sia a un tempo da parassiti e da censori della potenza Stati Uniti, al riparo del suo ombrello militare, ma sdegnosamente dissociati dalle sue responsabilità, non è più possibile, oltre a essere sempre più grottesco. Il tempo delle botti della sicurezza piena e delle vestali dell’antiamericanismo ubriache è finito.

È finito anche il tempo in cui “Yankee go home!” era il canto liturgico di un pacifismo a scrocco, senza ambizioni e senza effetti. Oggi, al modo indicativo e non imperativo, è la fotografia di una situazione. Gli americani sono tornati a casa e questo rende tutto più pericoloso e più costoso per gli stati del continente europeo, che la minorità militare della stagione di Yalta ha disabituato a concepire la difesa e la sicurezza non solo come condizioni necessarie per la pace e la prosperità, ma soprattutto come responsabilità politicamente obbligate delle istituzioni democratiche e come essenza della sfida democratica a qualunque ordine politico alternativo e quindi concorrente a quello occidentale.

Tutto ciò ovviamente non significa che gli stati europei e l’Unione europea possano anche solo immaginare di provvedere da soli alla propria difesa, a prescindere dagli Stati Uniti e dalla Nato. Significa, al contrario, che la difesa degli interessi comuni dell’occidente non può essere a prescindere da un impegno effettivo, non puramente sussidiario o addirittura simbolico, degli stati protetti dal Patto Atlantico.

Significa che senza vagheggiare alcuna indipendenza, essi devono dotarsi, a pena di conseguenze esiziali, degli strumenti capaci di assistere una relativa autonomia miliare e strategica e una forza di intervento su fronti, su cui è ormai irrealistico pensare di suscitare (e magari subito censurare, dopo averne incassato i vantaggi) l’intervento Stati Uniti.

La Libia mezza russa e mezza turca ai confini delle acque territoriali italiane e europee, che esige un pizzo criminale per aprire il rubinetto energetico e chiudere quello migratorio, è la prova provata che il tempo del free riding sulla sicurezza è finito.

Pensare di risparmiare sull’impegno militare alzerà semplicemente il prezzo dell’estorsione che sono disposte a subire un’Italia e un’Europa indifese e indisponibili a difendersi, se non individuando vilmente il “nemico” nei profughi e nelle vittime del cataclisma afghano, come pochi anni fa di quello siriano.

E proprio la Siria, nella cui guerra nessuno stato occidentale ha messo piede –  a differenza di quanto ha detto Letta, nel suo sbianchettamento parasovietico dell’enciclopedia pacifista della sinistra – dimostra che anche il costo del “non intervento” dal punto di vista politico, militare e umanitario può farsi altissimo e insostenibile, sia per la coscienza che per il portafoglio.