«Avevamo le munizioni, i colpi, gli equipaggiamenti, eppure ci è stato ordinato di lasciare. Non siamo scappati, volevamo restare». Nessuno vuole abbandonare il posto dove è nato e cresciuto senza neanche aver provato a difenderlo. Non lo voleva neanche Khaled, giovane ex militare dell’esercito nazionale afghano evacuato da Kabul e ora a Roma con molti suoi connazionali in fuga dal regime talebano. Khaled è un nome di fantasia, scelto per proteggere lui e la sua famiglia.
Secondo il Ministero della Difesa, dallo scorso giugno e fino al 26 agosto, i cittadini afghani evacuati e messi in sicurezza dai militari italiani sono stati quasi 5mila; 4.575 (di cui 1.062 donne e 1.146 bambini) quelli giunti in Italia negli ultimi 12 giorni. 420 rifugiati hanno già osservato il periodo di isolamento fiduciario. Come predisposto dal Viminale, in 230 sono stati accompagnati in strutture della rete Sai (Sistema accoglienza integrazione) tra Campania, Puglia, Calabria e Molise.
Altri 190 sono stati alloggiati nei Cas, i Centri di accoglienza straordinaria, tra Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana e Lazio. Sono invece quasi 1.300 rifugiati ospitati presso le strutture Covid. Sono più di 500 quelli ospitati in alberghi, parrocchie, associazioni e centri di accoglienza.
«Ai comandanti dell’esercito afghano – racconta Khaled – è stato ordinato di allontanarsi, ma il loro desiderio era combattere. I soldati sono sempre soldati, non possono decidere per conto loro, e un ordine è un sempre ordine. In alcuni video gli ufficiali appaiono in lacrime, sono disperati perché non vogliono lasciare le postazioni». Non si dà pace e non se ne fa una ragione: «Per me, è come se non fosse successo, ancora non mi capacito. È incredibile pensare che un esercito, tanto ben armato dagli Stati Uniti, si sia arreso così ai talebani».
Per Khaled e compagni, la responsabilità è della politica e, come da sempre in Afghanistan, tutto si riduce a una questione di appartenenza: «Credo sia dipeso dal presidente Ashraf Ghani, di etnia pashtun. Al presidente importava ben poco del Paese, aveva un altro passaporto e ha pensato a salvarsi, lasciando il controllo del territorio ai pashtun. La pensa così la maggior parte degli ufficiali afghani».
Terminata l’Accademia militare di Modena, Khaled è arrivato a Roma per frequentare la Scuola Ufficiali dei Carabinieri. Tre anni fa, era tornato in Afghanistan, dove ha comandato un plotone e una compagnia per circa sei mesi. È stato aiutante di campo per un generale di corpo d’armata dell’esercito nazionale afghano. Insegnava geografia politica dell’Afghanistan all’Accademia militare di Kabul, in base al concetto train the trainers. Svolgeva la sua parte nella guerra ai talebani. Quando andava al lavoro non poteva indossare la divisa, doveva andarci con l’abito tradizionale afghano per non essere riconoscibile. «Durante questi anni i talebani hanno ucciso tanti dei nostri ufficiali, quando venivano riconosciuti. Al comandante con cui lavoravo hanno ammazzato il fratello, un colonnello dell’esercito».
Ultimata la scuola ufficiali, Khaled avrebbe potuto restare in Italia, così gli avevano consigliato amici e colleghi. Del resto, anche la moglie ha studiato qui. Ma insieme hanno preferito ritornare in Afghanistan. Lei era incinta. Quasi tutti i ragazzi che hanno studiato in Italia sono tornati, non solo lui, senza risultati visto il disastro delle ultime due settimane.
La moglie di Khaled lavorava all’Ambasciata italiana a Kabul. Rischiavano la vita soprattutto per lei: «La colpa di mia moglie, secondo i talebani, è aver lavorato con gli occidentali, con gli infedeli. Appena i talebani sono arrivati a Kabul, ci hanno riferito che stavano andando casa per casa a cercare chi aveva collaborato con gli stranieri. Siamo andati via subito e fortunatamente ci hanno portato qui».
Negli ultimi mesi a Kabul ogni famiglia ospitava qualcuno scappato dalla guerra. Le persone, in arrivo da varie zone dell’Afghanistan, avevano trovato rifugio nella capitale, che si credeva fosse più tranquilla di altri posti. Allora, nessuno pensava che Kabul sarebbe caduta in mano ai talebani, che nel frattempo avanzavano lentamente.
Quando dalla tv e dai social si è saputo che presidente era scappato, gli uomini della polizia sono andati via e i talebani sono entrati a Kabul senza sparare un colpo. Gli ultimi giorni stare lì era diventato un inferno, per le donne ancora di più. Non si poteva uscire di casa, era tutto chiuso, le banche, i negozi. Le persone, ancora dopo due settimane dalla conquista della capitale da parte dei talebani, non riescono a comprare da mangiare. Kabul non è l’Afghanistan e Khaled non sa dire quale sia la situazione nelle zone più remote, nelle campagne.
Si stima che dal 2002 gli Stati Uniti abbiamo speso più di ogni altro Paese al mondo a favore dei progetti di nation-building in Afghanistan, destinando oltre 140 miliardi di dollari alle opere di ricostruzione, ai programmi di aiuto e alla formazione delle forze di sicurezza afghane. Quasi 19 miliardi sarebbero andati persi tra maggio 2009 e dicembre 2019, come riferisce il report dell’ottobre 2020 redatto dall’organismo chiamato a supervisionare le missioni in Afghanistan e destinato al Congresso americano. «Sono stati spesi miliardi di dollari, – prosegue Khaled – ma molti sono stati rubati. Non ci sono servizi, mancano le ambulanze. Non sempre a Kabul c’è la corrente elettrica. In diverse case la luce c’è per due giorni alla settimana e solo per alcune ore. La corruzione ha mangiato il Paese. Se una persona otteneva un contratto, per esempio per la costruzione di una scuola o di un ospedale, tratteneva per sé un po’ di soldi e poi lo rivendeva. Il contratto veniva rivenduto più volte fino ad arrivare alla persona meno qualificata per quel lavoro».
Khaled teme che la vittoria possa rendere i talebani ancora più brutali: «Si sentono ancora più forti per aver sconfitto gli americani. Dopo di loro chi altro potrebbe esserci da abbattere? Te lo dico io: nessuno. Finché ci saranno gli occidentali in Afghanistan, si mostreranno concilianti, in particolare con le donne. Mi auguro di sbagliarmi, ma non credo che cambieranno mai, li conosciamo. Da quello che so, pochi giorni fa a Kabul hanno ucciso due ragazze perché non avevano il burqa. Se vuoi vivere con un minimo di libertà, allora tutto è contro la sharia, anche cantare».
«Un ragazzo – prosegue Khaled – è stato costretto a immergersi nell’acqua putrida perché aveva addosso dei pantaloncini e non l’abito tradizionale. Secondo alcuni tra i talebani, tanto per fare un esempio, gli uomini devono portare la barba. Secondo altri, no. Ecco perché credo che i talebani non siano tutti uguali, che non la pensino tutti allo stesso modo. Tuttavia, una volta annunciato il governo e dettate le regole, penso che le differenze saranno sanate e prevarrà la linea della leadership».
Osservato il periodo di quarantena, Khaled e gli altri potranno uscire dall’albergo dove sono ospitati. Dovranno andare da soli con i mezzi pubblici all’ufficio immigrazione, il primo passo di una nuova vita.
«Non so più chi sono – dice Khaled mentre si accende un’altra sigaretta – Ero un ufficiale e ora non sono più niente. Devo ricominciare da zero. Con il corpo sono qui, la mia anima è ancora in Afghanistan».