Inside NicosiaLo scontro senza fine tra Turchia e Cipro nel quartiere fantasma di Varosha

Un tempo era il principale polo turistico cipriota, ma non è mai stato annesso all’interno della Repubblica turca di Cipro Nord. E rimane da decenni sotto sorveglianza militare di Ankara. Una situazione sospesa e fuori dal tempo che restituisce la fotografia decadente della divisione tra i due Stati

LaPresse

Un tempo era la Saint Tropez del Mediterraneo orientale, meta prediletta del jet set anni Sessanta e Settanta, da Liz Taylor e Richard Burton fino a Brigitte Bardot. Oggi Varosha è una città fantasma che porta le cicatrici della divisione dell’isola di Cipro in due, dopo l’intervento militare della Turchia nell’estate di 47 anni fa in risposta al (fallito) golpe orchestrato dal regime dei colonnelli all’epoca al potere ad Atene.

Ed è qui, in questo sobborgo recintato e inaccessibile alla periferia di Famagosta, che si riaccende la tensione fra Nicosia e Ankara, con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan che ha usato una recente visita a Cipro Nord come réclame, sotto i riflettori internazionali, per la riapertura della località balneare. E per rilanciare quella che il Sultano ritiene essere l’unica soluzione possibile a decenni di stallo sul dossier cipriota: non la riunificazione in una federazione bi-zonale e bi-comunitaria sponsorizzata a fatica dall’Onu, ma la piena secessione del nord e la creazione di due entità statali autonome.

A ridosso della Linea Verde e della zona cuscinetto che taglia in due Cipro, Varosha (in turco Maraş) aveva fatto già la sua ricomparsa nella polemica politica lo scorso ottobre, durante la campagna elettorale per le presidenziali della Repubblica turca di Cipro Nord, l’autoproclamata entità di governo della parte nord del Paese (circa un terzo dell’isola) che è riconosciuta internazionalmente soltanto dalla Turchia (anche se secondo varie indiscrezioni altri Paesi nell’orbita del Sultano, come l’Azerbaigian sempre più attivo nel Caucaso meridionale, potrebbero adesso fare lo stesso).

Lo scorso autunno l’allora premier Ersin Tatar, candidato nazionalista alle presidenziali, aprì simbolicamente un parziale varco di accesso al lungomare, smantellando 2,5 chilometri di filo spinato che sbarravano l’accesso ai visitatori, e avviando l’opera di ripulitura da macerie e detriti. Qualche giorno più tardi fu Tatar, alleato di Erdoğan e oppositore della prospettiva di una un’unica Cipro, a prevalere nelle urne.

L’opposizione all’annuncio comincia però già in casa: non tutta la comunità turco-cipriota, infatti, è convinta che la mossa del Sultano sia la via da seguire; la minoranza vi vede, oltre a una inevitabile recrudescenza nella contrapposizione con Nicosia e Bruxelles, pure un tentativo di proiettare ancora di più l’ombra e l’influenza di Ankara, anche attraverso nuovi finanziamenti esteri, nel conflitto cipriota.

«Le porte di una nuova era si apriranno». In occasione della visita per commemorare l’anniversario dell’operazione militare del 20 luglio, Erdoğan ha annunciato che il 3,5% del sito di Varosha sarà smilitarizzato e riaperto e che, anzi, i greco-ciprioti che 47 anni fa lasciarono le coste della città-resort, potranno oggi reclamare le proprietà perse all’epoca facendo ricorso a una apposita commissione istituita dalla Repubblica turca di Cipro Nord. Furono 200mila i greco-ciprioti che abbandonarono nottetempo il nord dell’isola (37mila solo da Famagosta e dintorni) per ripiegare al sud, mentre circa 25mila turco-ciprioti fecero l’itinerario inverso.

Il ramoscello d’ulivo sventolato dal presidente turco e la volontà di riconoscere i diritti dei residenti fuggiti dopo l’invasione, però, non devono generare illusioni rispetto alle vere intenzioni di Ankara e della leadership di Cipro Nord: ribaltare lo status quo e gettare un nuovo ostacolo sulla difficile strada dei negoziati per la riunificazione. In 300 avrebbero fatto già domanda, ricostruisce il Guardian: richieste che si tradurrebbero in risarcimenti miliardari a carico di Ankara, ma che, dall’altra parte, accelererebbero i piani di un ritorno degli investimenti nella località fantasma.

La situazione di Varosha, fanno notare alcuni ex residenti, è diversa rispetto a quella del resto dell’isola: il sobborgo non è mai stato annesso all’interno della Repubblica turca di Cipro Nord, ma rimane da decenni sotto sorveglianza militare turca. Una situazione sospesa e fuori dal tempo che restituisce la fotografia decadente di quello che fu il principale polo turistico cipriota fra l’indipendenza dal Regno Unito, nel 1960, e gli eventi dell’estate 1974. 5mila case e 100 hotel si trovano ancora oggi dietro le barricate in cemento e le torrette presidiate dall’esercito turco. Una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 1984 ribadì il diritto degli abitanti di Varosha di far ritorno nelle loro proprietà. Ma poiché nei negoziati internazionali i vari temi sono trattati come componenti di un unico pacchetto, il governo della Repubblica di Cipro – membro dell’Ue, e pure l’unico riconosciuto dalla comunità degli Stati – non ha mai voluto trattare il capitolo Varosha separatamente rispetto all’intero dossier sulla riunificazione dell’isola, fanno notare con amarezza gli esuli della città sul mare.

Quello che è cambiato, nel frattempo, è che il dialogo non è stato mai così infruttuoso. Il faccia a faccia tra i leader delle due comunità, ripreso in Svizzera sotto l’egida dell’Onu ad aprile scorso dopo poco meno di quattro anni di stop, ha certificato la distanza siderale: non c’è «abbastanza terreno comune per permettere la ripresa delle trattative formali». Come Erdoğan, il nuovo establishment di Cipro Nord a trazione nazionalista non appoggia soluzioni federali, ma persegue l’agenda della secessione del nord e della creazione di due Stati sovrani. Sono lontani i tempi in cui, nel 2004, i turco-ciprioti votavano a valanga in un referendum per la riunificazione sotto un’unica bandiera, pochi giorni prima dell’ingresso di Cipro nell’Unione europea. Aspettative raggelate allora dall’opposizione dei greco-ciprioti. Un’altra Europa.

«Non accetteremo mai e poi mai una soluzione a due Stati», aveva ribadito alla vigilia della visita di Erdoğan la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Le ha fatto eco il capo della diplomazia Ue Josep Borrell, secondo cui «la decisione unilaterale rischia di far montare la tensione sull’isola, compromettendo il ritorno a negoziati sulla complessiva risoluzione della questione cipriota».

Prese di posizione simili a quelle del dipartimento di Stato americano e del Consiglio d’Europa, come anche delle Nazioni Unite, che hanno intimato di fermare le iniziative intraprese negli ultimi mesi a Varosha. Si fa sentire anche il Regno Unito, ex potenza coloniale che da dopo l’indipendenza di Cipro è “garante” dello status quo insieme a Grecia e Turchia. Nell’era della Global Britain post-Brexit il dossier mediterraneo potrebbe farle gola. Soprattutto visto che l’ultimo vero successo diplomatico dell’Unione europea da queste parti porta i sigilli DOP, la denominazione protetta riconosciuta al formaggio halloumi (in greco)/hellim (in turco) prodotto sull’isola. Per anni si è pensato potesse essere un buon viatico per l’accordo, ma adesso è stato superato in curva dal risveglio di una città addormentata da quasi 50 anni.

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