È ancora prematuro identificare con certezza quale e come sarà l’Afghanistan di domani. Infatti, nonostante le repressioni, le proteste diffuse delle donne che non accettano di rinunciare alle libertà e agli spazi acquisiti in questi venti anni e l’esclusione dal governo di qualunque rappresentanza delle minoranze etniche lasciano nel dubbio, almeno per ora, la potenziale stabilità del nuovo governo di Kabul. È pur vero che tutta la forza è nelle mani dei Talebani, ma la crisi economica che ha cominciato ad attanagliare il Paese, se non sarà superata in tempi brevi, potrebbe favorire altre e nuove ribellioni.
Anche la regione del Panshir, nonostante l’accesso alla valle e i luoghi principali siano stati immediatamente conquistati dai guerriglieri talebani, continuerà a rappresentare un punto di domanda sull’esito della guerra interna fino a che gli uomini di Massoud figlio resisteranno abbarbicati sulle montagne più alte e nelle valli minori.
In questo quadro d’incertezza è quindi interessante riuscire a capire quale sarà l’atteggiamento immediato e futuro dei Paesi che più sono toccati dall’evoluzione della situazione locale.
L’unico vicino che finora ha applaudito senza riserve alla vittoria dei Talebani è il Pakistan. A Islamabad hanno sempre giocato sui due fronti, quello americano e (non ufficialmente) quello dei ribelli. L’esercito e i servizi segreti di sicurezza pakistani hanno aiutato in tutti i modi la guerriglia talebana e non è un caso che il Pakistan sia stato il primo a riconoscere il nuovo governo, ripristinando perfino i voli commerciali con Kabul.
Tutti gli altri Paesi vicini, pur mantenendo anch’essi qualche tipo di rapporto informale con i Talebani, erano tuttavia contenti che le truppe Nato fungessero, di fatto, da garanzia contro l’espandersi del terrorismo verso il loro territorio. Parlo naturalmente di Iran, Cina, Russia, India e Turchia. Tutti (salvo l’India) hanno già espresso disponibilità a un riconoscimento ufficiale del nuovo Governo di Kabul ma hanno anche avanzato riserve. Vediamoli uno per uno.
Iran
Teheran ha formalmente richiesto garanzie per i fedeli sciiti presenti in Afghanistan. In realtà, non è questa la vera preoccupazione degli iraniani. Ciò che più li preoccupa sono gli eventuali influssi (o addirittura le complicità) dei fanatici religiosi talebani per quanto concerne le minoranze sunnite all’interno dell’Iran e il possibile ulteriore incremento della produzione di papavero da oppio. La crisi economica afghana potrebbe spingere i Talebani a incoraggiare ancora di più tale produzione e il poroso confine tra i due Paesi renderebbe impossibile controllarne l’ingresso. Il consumo di oppio in Iran è una realtà, seppur negata dal regime, e comunque il suo territorio è uno dei passaggi di transito di oppio ed eroina verso i mercati occidentali. Nonostante la popolazione afghana sia molto favorevole ai persiani e una delle due lingue più parlate nel Paese (il dari) sia molto simile al farsi, Teheran non ha mai avuto buoni rapporti con il precedente governo talebano e si mantiene ora in una posizione disponibile ma attendista. Gli iraniani ospitano già un buon numero di profughi afghani e un’altra preoccupazione riguarda il numero di possibili nuovi arrivi.
Cina
Anche se alcuni osservatori hanno formulato l’ipotesi che la Cina sia il Paese che ha più da guadagnare dalla vittoria talebana, le cose non stanno necessariamente in questi termini. La principale preoccupazione cinese riguarda l’esportazione del fanatismo talebano nello Xinjiang e la garanzia maggiore che Pechino chiede a Kabul è l’impedire contatti con gruppi terroristi di questa regione. La Cina ha potenzialmente molto da offrire al nuovo governo afghano: un suo riconoscimento diplomatico garantirebbe il non isolamento di Kabul e possibili aiuti finanziari ed economici sarebbero indispensabili per alleviare la crisi economica che sta soffocando il Paese. Pechino ha già ottenuto di dimostrare al mondo la non affidabilità della potenza americana e potrebbe anche decidere di includere l’Afghanistan nel progetto della Via della Seta terrestre. Tuttavia, è ancora una semplice ipotesi che Pechino sia già pronta a impiegare le sue forze economiche per sfruttare le risorse minerarie presenti nel Paese. Se queste risorse, che pure esistono, fossero così a portata di mano c’è da domandarsi perché, in vent’anni, nessuno dei Paesi occidentali presenti le abbia messe a frutto. La risposta sta nella totale carenza sul territorio di infrastrutture idonee allo sfruttamento minerario. La complicata orografia del Paese, la stessa che ha reso possibile la sopravvivenza della guerriglia talebana e il sussistere di una cultura tribale molto differenziata, rende particolarmente difficile lo sfruttamento delle risorse e il trasporto dei prodotti eventualmente ottenuti. Anche Pechino, inoltre, nutre preoccupazioni per il fatto che la coltivazione dei papaveri da oppio continui a rimanere una risorsa importante nell’economia generale dell’Afghanistan e teme che, attraverso il Pakistan, la droga possa arrivare fino in Cina.
Russia
Per la Russia e per i Paesi membri della Comunità degli Stati indipendenti, il riconoscimento politico del governo talebano dipende da alcune garanzie che quest’ultimo dovrebbe offrire. Innanzitutto, la certezza che Kabul vorrà impedire con tutti i mezzi i contatti con i gruppi islamisti presenti nei Paesi confinanti e nel Caucaso. In secondo luogo, anche i russi temono il rischio che, via Tagikistan e Uzbekistan, si accresca il contrabbando di oppio ed eroina con destinazione finale l’Occidente ma con importanti rivoli destinati a fermarsi localmente durante il transito. Infine, e questo vale soprattutto per il Tagikistan, un controllo delle frontiere che limiti l’emigrazione di centinaia di migliaia di afghani che potrebbero ulteriormente aumentare il gran numero di quelli già arrivati nel Paese, con conseguente stress economico e disagio sociale per gli autoctoni.
India
Tra i Paesi interessati all’area, l’India è quello che potrebbe perdere di più dalla nuova situazione. Nuova Delhi aveva intensificato i rapporti economici e politici con Kabul anche in funzione anti-pakistana e questa è una delle ragioni che spiegano l’aiuto costante che Islamabad ha sempre fornito ai gruppi talebani. Un governo controllato da costoro, si pensa in Pakistan, metterà l’India in un angolo e impedirà quell’accerchiamento perseguito dagli indiani e fortemente temuto dai pakistani.
Turchia
Recep Tayyip Erdoğan è colui che guarda a Kabul con l’intento di capitalizzare al massimo quanto è successo. I soldati turchi presenti in Afghanistan con le forze Nato non hanno mai partecipato a conflitti armati e di questo si fa forte Ankara per proporsi come immediato interlocutore. La richiesta avanzata alla Turchia da parte degli americani di mantenere un contingente presso l’aeroporto di Kabul per poterne garantire il funzionamento (se accolta dai Talebani) può consentire a Erdoğan di mantenere una porta aperta per tutte quelle società turche, soprattutto nel settore delle costruzioni, che hanno tratto il massimo beneficio economico durante i vent’anni di occupazione. La speranza di Erdoğan, schiacciato da una crisi economica interna aggravata dal Covid, è quella di garantire al proprio elettorato-business una continuità di lavoro (e di profitti) che tornerà utile per favorire la ripresa economica e il consenso elettorale. Inoltre, un’eventuale presenza di truppe turche a Kabul sarebbe anche a costo zero perché Erdoğan ha posto agli Stati Uniti la condizione di ottenere un indennizzo economico. L’unica preoccupazione di Erdoğan è quella che la Turchia non diventi un rifugio per nuovi profughi e, per evitare il rischio, ha già fatto cominciare la costruzione di un muro sul confine con l’Iran. Tale barriera mira a impedire il passaggio di afghani che puntino ad arrivare in Europa passando da quella strada. Inoltre, una presenza turca in Afghanistan, oltre che consentire un potenziale ritorno economico, rientrerebbe nel piano di Ankara di una sempre maggiore influenza sul centro-Asia.
Tutti i Paesi di cui sopra hanno in comune l’interesse che l’Afghanistan diventi un Paese stabile con cui poter negoziare secondo le proprie esigenze. Naturalmente, ciò andrebbe a detrimento delle speranze dei guerriglieri di Massoud di poter ricevere aiuti e armi da qualcuno di questi Paesi. Tuttavia, se Massoud riuscirà a resistere per alcuni mesi e Kabul non risponderà correttamente alle aspettative dei suoi interlocutori, non è detto che la situazione dei guerriglieri non possa migliorare.
Nonostante le sconfitte subite in questi ultimi giorni, Massoud è riuscito a rinforzare i suoi tagiki con l’arrivo di volontari uzbeki, hazara e militari del disfatto esercito afghano. Sembra anche che in suo aiuto siano già arrivati anche velivoli di provenienza sconosciuta, che hanno compiuto bombardamenti contro le truppe talebane. Qualcuno ha immaginato che si sia trattato di droni o di caccia bombardieri iraniani o russi provenienti dal Tagikistan ma, se così fosse, occorrerà capire se di vero aiuto si tratta o semplicemente di una forma di pressione minacciosa sul neonato governo per aumentare un qualche potere negoziale.
Di certo c’è che il governo del Tagikistan ha più volte richiesto ai Talebani che nel governo di Kabul fossero inclusi anche i tagiki afghani. Cosa che non è avvenuta. Negli scorsi giorni, sul sito del Ministero degli Esteri di Dušanbe si leggeva: «La comunità internazionale […] ha lasciato un’eredità di decine di migliaia di terroristi in Afghanistan, che è diventato un terreno fertile per il caos. Che cosa dovrebbe fare il Tagikistan, che ha un confine lungo e vulnerabile con questo Paese, in questa situazione?». Appunto: che cosa farà?