Prima di parlare del declino della Chiesa italiana, occorre riconoscere che la Chiesa è parte della società, assorbe i “vizi” e le mediocrità del Mondo che la circonda. Il pensiero debole che contamina buona parte del mondo occidentale ricco, si è insinuato anche nella Chiesa e l’ha indebolita, come ha fatto prima di lei con altre istituzioni, le quali forse hanno sofferto anche di più.
Sul presunto declino sociale della Chiesa andrebbe quindi fatta la tara rispetto al declino, a volte irreversibile, di altri soggetti portatori di un “messaggio”.
Tutti i pensieri forti sono stati già spazzati via e con essi tutti i soggetti che li difendevano e li trasmettevano. Non è questa la sede per ricordare la crisi di altre istituzioni, ma è giusto ricordare ancora una volta che la capacità di fare autocoscienza critica e, in ambito ecclesiale, conversione pastorale, è segno di vitalità di un soggetto, magari in affanno, ma non in agonia.
Ad ogni modo, dall’indagine di popolazione emerge un quadro abbastanza forte della percezione di declino che la Chiesa cattolica dà della sua presenza nella società italiana: il 32 per cento degli italiani si dice molto convinto che questo declino sia in atto, il 36,5 per cento se ne dice convinto in parte, rapporto che è invertito presso i cattolici praticanti: 24,1 per cento molto convinti, 41,5 in parte convinti, ma la visione e omogenea, circa sette italiani su 10 confermano un’immagine sempre più rarefatta e poco incisiva. Solo il 27,2 per cento dei cattolici praticanti ritiene che il mondo cattolico sia ancora abbastanza presente.
Ancora più disarmante la motivazione che gli italiani danno del declino: senza esitazione e senza differenze sostanziali tra credenti e non credenti, la causa del declino risiede nel non aver saputo interpretare le sfide della contemporaneità, anche se bisogna ricordare che la domanda sulle cause è stata rivolta a quel 70 per cento che nella domanda precedente si era mostrato più o meno convito che ci fosse un declino in atto, ad ogni modo testualmente quasi il 50 per cento del campione (47 per cento) dice: «Perché le sfide del mondo moderno sono cambiate e la Chiesa non ha saputo coglierle». A questi si aggiunge un 24,5 per cento di italiani (22,7 per cento tra i cattolici praticanti) che riconducono la causa del declino a un ruolo defilato dei pastori, i quali non si occuperebbero sufficientemente di sociale.
Non convince la spiegazione che la Chiesa sia in declino perché priva di una sua visione autonoma della società (circa il 16 per cento in tutte le categorie).
A una Chiesa isolata perché segno di contraddizione e comunque perché scomoda, crede il solo il 13 per cento di italiani (18,8 per cento di praticanti).
Il declino quindi della presenza sociale del mondo cattolico non è riconducibile al suo essere “altro” dal mondo, che si tratti di essere scomodi o di avere una propria visione di come le cose dovrebbero andare, bensì nel suo non essere abbastanza “dentro”, dentro ai cambiamenti, dentro le sfide del mondo che bisogna saper cogliere e affrontare.
Infatti un quarto di coloro che ritengono che la Chiesa stia attraversando un periodo di declino della sua presenza nella società italiana, il 24,5 per cento, ne attribuisce la responsabilità alla tendenza dei pastori di non occuparsi abbastanza di sociale.
I rischi di un impoverimento delle relazioni
Un corpo sociale complesso, com’è la Chiesa italiana, sa bene che la sua identità «non è nel soggetto, ma nella relazione», vive cioè nel continuo rapporto con i vari protagonisti della dinamica sociale. Se, infatti in termini religiosi, la Chiesa è un soggetto sovraordinato, perché istituita da Dio, funzionale al Suo progetto e da Lui sempre preservata dal maligno (Mt. 16,18), in termini sociali la sua funzione è diversa, sta nella dinamica sociale e deve convivere nella concreta variabilità della composizione sociale del Paese. Da questo punto di vista la Chiesa italiana non è “La Chiesa”, malgrado la presenza del Cupolone spesso ce lo abbia fatto pensare, bensì è una delle tante incarnazioni della Chiesa universale. La sua vitalità e – in ultima analisi – anche la sua sopravvivenza dipendono dalla sua capacità di essere in relazione con la realtà circostante; storicamente la molteplicità di interazioni, a tanti livelli e in quasi tutti gli ambiti della società, è sempre stato un punto di forza e di vitalità della Chiesa italiana, grazie anche a un’appartenenza numericamente maggioritaria e alla tradizionale sovrapposizione identitaria.
Oggi, con la rarefazione della capacità di esercitare influenza e la perdita di ogni egemonia praticamente in tutti gli ambiti, questi meccanismi che hanno sempre facilitato l’azione ecclesiale, sono in buona parte venuti meno. Si tratta di un processo inevitabile e come tale va accettato.
Quello che invece sarebbe un errore imperdonabile ha a che vedere con la perdita di relazione con il mondo circostante, interrompere il legame con la società, laddove non si è più in grado di influenzarla sarebbe la vera sconfitta.
In altri termini, tener viva la relazione anche laddove si è raggiunta la più totale irrilevanza e ininfluenza, rappresenta una delle più importanti sfide di questo periodo, una sfida che avrà una duplice valenza:
1. Un’azione della cultura cattolica capace di rientrare in relazione con tutti, sui temi di interesse collettivo, rasserenandosi sui temi divisivi, pur mantenendo la propria autonomia di pensiero, ne riattiverebbe la capacità propulsiva per un dibattito sul bene comune, dibattito che attualmente non ha nessun luogo di elaborazione.
2. Inoltre […] rafforzerebbe il suo ruolo di portatrice di una cultura della relazione, cultura che precede e prevale sulla capacità di influire e di essere rilevanti. La cultura della relazione sarà il grande tema del futuro, perché dove la relazione funziona, tutto funziona, mentre dove la relazione non funziona, non funziona nulla. Ogni ingegneria sociale o economica sarà sempre meno in grado di favorire il buon funzionamento delle relazioni umane e solo chi avrà cultura relazionale sarà in grado di accompagnare realmente i processi sociali.
Cosa non ha funzionato?
Dobbiamo allora domandarci cosa non abbia funzionato nel mondo ecclesiale italiano degli ultimi tempi. Le risposte sono varie e nessuna “spicca”, nel senso che i diversi giudizi raccolgono le stesse percentuali di consenso nel campione rappresentativo della società italiana e, tra l’altro, non ci sono particolari differenze tra praticanti, non praticanti e non credenti: è mancata una linea unitaria(28,3 per cento dei praticanti), sono mancati i personaggi in grado di fare sintesi tra diverse posizioni (23,8 per cento), è mancata la capacità di comunicare (20,9 per cento) o, infine, sono mancati i momenti di condivisione collettiva e di partecipazione (24,3 per cento), mentre per un quinto degli italiani (22,2 per cento dei praticanti e 19,2 per cento del totale del campione) non è vero che le cose non abbiano funzionato, come a dire che per il 78 per cento dei cattolici praticanti “qualcosa non ha funzionato”, Chiesa e società si sono allontanate e ciò non è stato un bene.
Forse allora l’italiano medio sarebbe portato a rispondere: «Un po’ tutte queste ragioni insieme, ma nessuna in modo specifico». La Chiesa non ha fatto errori particolari e forse sta proprio lì il suo errore principale, non si è sbilanciata, non ha fatto scelte di campo nette e reiterate nel tempo, non ha corso il rischio di fare qualche “grande sbaglio”. Un rimanere “disallineati e coperti” confermato anche dal dato dei cattolici praticanti che si concentrano leggermente di più (29,3 per cento) sulla risposta: «È mancata una linea unitaria».
Magari allora, con maggiore distacco, tra qualche anno potremo dire che questa strategia attendista ha permesso alla Chiesa di sopravvivere negli anni dello sgretolamento di ogni altro pensiero forte, ma certamente non ci si può accontentare di sopravvivere troppo a lungo.
da “Il gregge smarrito. Chiesa e società nell’anno della pandemia”, a cura dell’assocazione Essere Qui, Rubbettino, 2021, pagine 164, euro 15