La puntuale doglianzaPerché i vescovi italiani si oppongono al referendum sull’eutanasia

Il comunicato della Cei inserisce la questione di una morte dignitosa in un’ottica meramente dannatoria, dove complessità e ricchezza della concezione antropologica contemporanea sono ridotte tout court. È un errore, e per fortuna nella Chiesa non tutti la pensano così

Mauro Scrobogna /LaPresse

È arrivata puntuale come la morte la doglianza della presidenza della Cei sul raggiungimento delle 500.000 firme – come disposto dall’art. 75 della Costituzione – per l’ammissibilità del quesito referendario sull’eutanasia legale. Ammissibilità su cui dovrà ora pronunciarsi la Consulta, mentre il limite minimo richiesto per l’eventuale indizione del referendum è stato in realtà già ampiamente superato e si punta a raggiungere le 750.000 adesioni entro il 30 settembre. 

Un traguardo straordinario per l’Associazione Luca Coscioni, che è la principale realtà promotrice della campagna #Liberifinoallafine, e per l’ex parlamentare Marco Cappato, che di quella è volto e simbolo. Un traguardo preoccupante, invece, per lo stato maggiore dell’episcopato, che, riunitosi il 17 agosto in assemblea straordinaria online, ne ha notificato l’indomani le posizioni sui diversi temi affrontati.

Nel comunicato ufficiale un intero capoverso, il terzo, è stato dedicato alla questione eutanasia con tanto di citazione conclusiva d’un passo della Samaritanus bonus della Congregazione per la Dottrina della Fede. «Grave inquietudine – si legge – è stata espressa invece per la raccolta di firme per il referendum che mira a depenalizzare l’omicidio del consenziente, aprendo di fatto all’eutanasia nel nostro Paese. Chiunque si trovi in condizioni di estrema sofferenza va aiutato a gestire il dolore, a superare l’angoscia e la disperazione, non a eliminare la propria vita. Scegliere la morte è la sconfitta dell’umano, la vittoria di una concezione antropologica individualista e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali. Non vi è espressione di compassione nell’aiutare a morire».

In un’ottica meramente dannatoria, dove complessità e ricchezza della concezione antropologica contemporanea sono ridotte tout court, secondo gli angusti e abusati stilemi wojtyliani-ratzingeriani, a individualismo e nichilismo (lo spettro di antichi e nuovi ismi da sempre agitare è moda inveterata al di là e al di sopra del Tevere), nulla si dice del morire con dignità in nome dell’autodeterminazione, di cui hanno scritto, ad esempio, in chiave teologica un Küng e un Jens.

Né tantomeno di un diritto a morire in quanto conseguente e compreso in quello di vivere, come spiegato da Hans Jonas. La morte vi appare invece unicamente declinata come dovere, quando essa insieme con la vita consiste essenzialmente in libertà: come a nessuno può essere imposto di morire, così a nessuno può essere imposto di vivere. E come è dignitosa la morte, che sopraggiunge senza che la si faciliti o anticipi intenzionalmente, altrettanto lo è quella di chi la decide da sé in piena autonomia. Dignità in riferimento al fine vita: ecco la grande assente nel comunicato dei vertici di Circonvallazione Aurelia, le cui asciutte parole, sia pur con toni deprecatori, marcano comunque una differenza dalla bolsa retorica del presidente dell’Accademia pontificia per la Vita, Vincenzo Paglia.

Il 16 agosto “Sua Onnipresenza”, che ci ha abituato a comparsate televisive e dichiarazioni a raffica sulla qualunque, dove la novità è data unicamente dalla sparata in metafore ogni volta più grossa della precedente, non solo ha correlato il sentire popolare sull’eutanasia ad altri e più perigliosi ismi (vitalismo, giovanilismo, salutismo) ma si è spinto a parlare di «nuova forma di eugenetica: chi non nasce sano, non deve nascere. E insieme con questo c’è una nuova concezione salutistica per la quale chi è nato e non è sano, deve morire. È l’eutanasia».

Facendo confusione e ignorando forse che l’eugenismo riguarda non solo lo stadio prenatale ma la vita dell’individuo nel suo complesso, Paglia sembra rievocare l’eugenetica nazista, condannata dal celeberrimo decreto del Sant’Uffizio del 2 dicembre 1940. Il che è non solo offensivo della memoria delle innumerevoli vittime del programma Aktion T4, ma soprattutto falso. Non c’è nessuna finalità selettiva nella richiesta di legalizzazione dell’eutanasia, né tanto meno alcuna obbligatorietà a sottoporvisi. Ma solo, come ha osservato Cappato, il riconoscimento del «sacrosanto diritto a rifiutare l’imposizione di scelte altrui sul proprio corpo e sulla propria vita». 

Il quesito referendario chiede in realtà l’abrogazione parziale dell’art. 579 del Codice penale per quel che riguarda la pena da sei a quindici anni di reclusione per l’omicidio del consenziente: non più dunque fattispecie specifica, sarà punito secondo l’articolo 575 relativo all’omicidio «se il fatto è commesso contro una persona minore degli anni diciotto; contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».

La previsione di un’autonoma fattispecie attenuata di omicidio fu in realtà una vera e propria novità introdotta dal Codice Rocco, che nel 1930 riconobbe per la prima volta una differenza tra omicidio del consenziente e istigazione o aiuto al suicidio (perseguito all’art. 580) come atti di disposizione manu alius e manu propria. Quando in realtà non c’è alcuna differenza sostanziale, visto che nel primo caso, secondo il rilievo di un penalista illustre e accademico dei Lincei quale Ferrando Montanari, «trattasi nell’essenza di un suicidio per mano altrui».

Questo non significa affatto legittimare l’uccisione di chi lo richiede «con qualsiasi modalità e senza motivazioni» secondo il modo di argomentare dei soliti teorici del pendio scivoloso o dei passi successivi, che, parlando di «morte on demand», sostengono che le pratiche eutanasiche su richiesta porteranno necessariamente a quelle senza richiesta. Il quesito referendario si muove infatti entro stringenti paletti normativi.

«L’eutanasia attiva – si legge nella nota esplicativa – sarà consentita nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e il testamento biologico, e in presenza dei requisiti introdotti dalla sentenza della Consulta sul “Caso Cappato” […]. L’eutanasia attiva è vietata dal nostro ordinamento sia nella versione diretta, in cui è il medico a somministrare il farmaco eutanasico alla persona che ne faccia richiesta (art. 579), sia nella versione indiretta, in cui il soggetto agente prepara il farmaco eutanasico che viene assunto in modo autonomo dalla persona (art. 580), fatte salve le scriminanti procedurali introdotte dalla Consulta con la sentenza Cappato».

Con questa sentenza, la 242/2019, la Corte Costituzionale, prendendo in considerazione la condizione di salute di Dj Fabo, che Marco Cappato accompagnò nel 2017 in Svizzera a morire, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 del Codice penale e ha escluso la punibilità di chi aiuta a morire «una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

La Consulta, riformulando il monito già espresso con l’ordinanza 207/2018, ribadisce con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente enunciati». Ma dopo quasi due anni il Parlamento non è riuscito ancora ad espletare il suo dovere di legislatore nel merito, al quale era stato sollecitato la prima volta nel lontano 19 dicembre 1984 con la proposta di legge Fortuna. Il testo base dell’ultima proposta di legge recante Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia ha infatti superato al momento la sola approvazione della Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera, riunite in sede referente il 6 luglio scorso.

Quello del «fine vita – osserva a Linkiesta il deputato forzista Elio Vito – è un tema sul quale il Parlamento deve necessariamente esprimersi, dopo essere stato sollecitato più volte anche dalla Consulta. E se ancora le Camere non lo faranno, saranno chiamati i cittadini a decidere la prossima primavera. Ed è un tema laico, che riguarda tutti, sui quali numerosi Stati hanno già legiferato. Ma qui, in Italia, evidentemente a vescovi e Vaticano non va bene, perché forse pensano ci sia una classe politica che può avere un certo senso di subalternità. Ecco perché, dopo il maldestro intervento sul ddl Zan, la Cei si è sentita in dovere d’intervenire addirittura su una richiesta di referendum, per la quale anche io ho firmato insieme a oltre 500.000 italiani ed italiane»

Ai vescovi e al loro quotidiano, che parla di traguardo della petizione come di «vento che spinge nel vicolo scuro» e improvvisamente difende il Parlamento dall’accusa di inerzia in riferimento alla pdl, fatto non ignorabile con cui «l’indubbio successo dei tavoli» è chiamato a fare i conti, forse gioverebbe meno il ricorso a querimoniose condanne che il recupero di una posizione più dialettica e profeticamente controcorrente come quella del cardinale Carlo Maria Martini: «Non si può mai approvare il gesto di chi induce la morte di altri, in particolare se si tratta di un medico. E tuttavia non me la sentirei di condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di un ammalato ridotto agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che, in condizioni fisiche e psichiche disastrose, lo chiedono per sé».

Parole che l’illustre teologo gesuita Paolo Gamberini ha così commentato lo scorso anno: «La sacralità della vita non può essere messa a disposizione di un deus ex machina. Affermare che la vita è proprietà di Dio e solo lui – in quanto suo creatore – può disporre di essa significherebbe ridurre Dio ad un idolo o al ruolo di “primo” primario del reparto al quale solo spetta la decisione finale da prendere per il paziente.  Se l’uomo è responsabile della sua vita, lo è anche della fine, perché inizio e fine sono inscindibilmente uniti. Come affermano sia Teilhard de Chardin sia Rahner, confratelli di Martini, Dio fa sì che il mondo – e quindi l’uomo – si faccia. La determinazione consapevole e libera di sé è il modo più umano con cui la creatura risponde al dono che Dio gli fa della vita. Questa è la volontà di Dio per l’uomo: quella di determinare consapevolmente e liberamente se stesso, senza delegare a una macchina o a un deus ex machina se stesso».

Se poi «scegliere la morte è la sconfitta dell’umano» sempre e comunque, come ha rilevato la presidenza della Cei, sarebbe sempre da spiegare perché si venerano e si presentano a modello cristiano donne, ad esempio, che in epoca di persecuzioni si uccisero per sfuggire agli oltraggi come sant’Apollonia o santa Pelagia. A meno che non si voglia come Agostino trovare una legittimazione teologica del loro gesto estremo in un presunto comando divino: «Non humanitus deceptae sed divinitus iussae». Come sarebbe da spiegare l’eccezione ammessa da Tommaso d’Aquino al divieto di uccidersi, se ciò avviene «divino instinctu […], ad exemplum fortitudinis ostendendum, ut mors contemnatur». Ma questa è tutta un’altra storia.

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