Cattive abitudini Non chiamatelo prosecchino

C’è anche il mondo dell’enogastronomia alla mostra internazionale del cinema di Venezia. E tra una mozzarella mangiata in pelliccia e i canederli cameo del film di Sorrentino, i brand trovano un modo di sostenere la cultura e di puntare sulla valorizzazione della qualità sul lungo periodo

Una Napoli straordinariamente tratteggiata, cruda e verace, oscura e solare, fa da co-protagonista del film di Sorrentino in concorso alla 78esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, un pugno nello stomaco e una carezza, che si alternano e si mescolano a tanto, tantissimo cibo che identifica, fa comprendere, e accompagna le scene determinanti della narrazione, con costanza e precisione. Perché “È stata la mano di Dio” è un affresco che narra la vita, la sua essenza e i suoi risvolti ironici e tragici, e come in ogni vita il cibo è sempre lì ad accompagnare ogni istante, e a sottolinearne la complessità. E il cibo di Napoli è identificato con la mozzarella azzannata a morsi dall’anziana impellicciata anche d’estate, in un crescendo felliniano che culmina nei pranzi familiari chiassosi e assolati, dove al desco si risolvono questioni, si confidano segreti, si accendono lotte e si pacificano animi. Ma sono i canederli della vicina austriaca il cameo gastronomico davvero determinante, che lancia il climax del racconto e lo riprende alla fine, in un perfetto cerchio della vita che anche dal punto di vista del gusto ha la sua perfetta chiusura. Canederli che rappresentano l’estraneo e il diverso, e che diventano il cibo consolatorio quando la vita ha il sopravvento sulle scelte di cuore e di pancia.

Ma come stanno insieme la mostra internazionale del cinema di Venezia e i grandi brand dell’enogastronomia? E perché un’azienda che produce Prosecco decide di sponsorizzare un evento culturale e destinare una parte consistente del suo budget pubblicitario per essere partner di un evento apparentemente slegato alla sua mission?

Ma soprattutto, ha ancora senso per un marchio investire in cultura? «Non posso nascondere che per me tutto inizia dalla passione personale» – racconta a Gastronomika Enrico Martellozzo. Il presidente di Bellussi, per tutta la durata della Mostra del Cinema, offre i suoi Prosecco DOC Rosè Brut 2020 e BellusSì Blanc de Noir 2020 nella lounge all’Hotel Excelsior, nel cuore delle pubbliche relazioni cinematografiche veneziane. Ma i suoi vini sostengono anche la stagione lirica della Fenice e la Biennale di Venezia. «Scelgo innanzitutto per una questione di piacere personale: voglio sostenere eventi che emozionano in primo luogo me. La lirica è una mia grande passione e sono felice di contribuire al suo sviluppo nella città che per me è un sogno e dove ho deciso di stabilirmi almeno per una parte dell’anno. Poi, che un investimento come questo sia forse meno immediato rispetto a un investimento nello sport, per esempio, e dia meno rapidamente risultati effettivi in termini economici nel breve periodo è sicuramente vero. Investire in eventi culturali è un lavoro di costruzione, significa concentrarsi su una nicchia: è un’attività che può dare belle soddisfazioni, ma che per funzionare ha bisogno di tempo. Siamo sostenitori del Festival da 13 anni, ormai, e posso dire che negli anni questa decisione ha pagato e ci ha permesso di aprirci strade altrimenti complesse, e ci ha resi più forti sul mercato internazionale che qui si ritrova e scopre l’italianità».

Una presenza che in effetti si allontana dalla canonica idea della promozione del Prosecco: un vino italiano che all’estero fa volumi e ricavi ma sta pagando lo scotto in termini di prestigio. Da vino per le occasioni, che si beveva in Italia per celebrare compleanni e anniversari, nel tempo queste bollicine venete si sono costruite una credibilità e hanno trovato la chiave per diventare uno degli aperitivi più richiesti qui e altrove. Ma quel “prosecchino” che spesso ci sentiamo proporre nei locali non rende giustizia a un vino che deve ricominciare a credere nella qualità, e abbandonare l’ambizione della quantità. Da quando è diventato modaiolo, infatti, la mole di produzione è aumentata vertiginosamente e ha creato una pericolosa corsa alla massa, dimenticando spesso la visione di lungo periodo e la vocazione alla produzione di grande livello.

«Proprio per questo investire in attività culturali ci permette di raggiungere un target più interessante, in grado di cogliere le caratteristiche di un prodotto realizzato con grande cura, alzando sempre l’asticella. Dobbiamo fare in modo di far cogliere le sfumature di gusto e di sostanza che il Prosecco di Valdobbiadene DOGC può offrire». Un racconto che parla di viticoltura eroica, ma anche di rispetto dei tempi, che l’imprenditore ha compreso ancora meglio da quando ha acquistato un’azienda in Toscana, Belpoggio: «La calma di aspettare che il vino sia al punto giusto, e di non “buttare” sul mercato le bottiglie appena sono pronte è uno degli insegnamenti di chi fa rossi e ha sempre dovuto avere pazienza. Anche questo significa fare progetti di lungo periodo».

È da qui che parte insomma il lungo lavoro per far comprendere che sminuire un prodotto pur di venderlo in quantità abnormi non può che far male al futuro di quello stesso vino. Smettere di usare un diminutivo per definirlo, e saper ordinare un Prosecco con nome e cognome, conoscendone le caratteristiche e identificandone il gusto a seconda della zona di produzione, del tipo di vinificazione e del tempo necessario a produrlo è uno dei passaggi necessari per permettere a questo grande testimonial dell’italianità nel mondo di rimanere un’icona e di non diventare una bevanda di massa senza identità. Una missione che si vince anche passando dalla cultura.

 

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