I dati del “Rapporto annuale sull’economia globale e l’Italia” giunto alla venticinquesima edizione, frutto della collaborazione fra il Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi e Intesa Sanpaolo, mostrano un’evidenza: nel nostro Paese mancano competenze digitali. Il digital mismatch, inteso come mancato allineamento tra offerta e domanda di lavoro calibrate sulle nuove competenze digitali, rischia di frenare la ripresa.
C’è un punto su cui far leva per cambiare la situazione. Lo spiega l’economista Mario Deaglio, professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino, curatore del Rapporto: poiché e-commerce e smart working sono qui per restare, «servono investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione ma anche in formazione del capitale umano». Scuola, formazione continua e continui investimenti infrastrutturali.
«Il capitale umano non deve essere sovvenzionato o indennizzato per non essere usato, ma dovrebbe essere impiegato e migliorato con investimenti in formazione», dice Mario Deaglio.
Pensiamo all’emergenza Covid nella sua fase più acuta. Che cosa sarebbe stata, si chiede Deaglio, «se la distribuzione commerciale non fosse proseguita grazie all’e-commerce, se i servizi finanziari e assicurativi non fossero stati garantiti dai canali online e se l’intrattenimento non fosse stato (parzialmente) garantito dallo streaming e dal gaming?».
Reskilling per dare futuro al lavoro
Anche se le società che producono e offrono questi servizi «sono le stesse che già prima della pandemia rappresentavano un rischio per quelle che li realizzano in maniera tradizionale, sull’onda inarrestabile della digital transformation – prosegue Deaglio – il grado di sovrapposizione tra le organizzazioni e le tecnologie che inverano da vent’anni il paradigma tecno-economico basato sulla rete e quanto è risultato essenziale durante l’emergenza (anche per lo sviluppo a tempo di record dei vaccini) è impressionante».
A questo fatto, si osserva nel Rapporto annuale sull’economia globale e l’Italia, va aggiunto il tema della digital reskill: «La transizione verso un’economia verde, circolare e digitale farà probabilmente invecchiare le competenze a ritmo accelerato. Il capitale umano non deve essere sovvenzionato o indennizzato per non essere usato, ma dovrebbe essere impiegato e migliorato con investimenti in formazione». Ridurre il digital mismatch è cruciale in questa fase di ripartenza.
Un’indagine del 2020 di Boston Consulting Group ha infatti rivelato che, benché preesistente, il problema del digital mismatch è emerso con drammaticità durante la pandemia e potrebbe indurre perdite in termini di produttività tra il 6 e l’11% e una mancata crescita del Pil nell’ordine complessivo di 18 trilioni di dollari entro il 2025.
La situazione in Italia
Per questa ragione, occorre colmare rapidamente il gap tra domanda e offerta, riducendo il digital mismatch. Un gap che per il Rapporto annuale Istat 2021 si evidenzia soprattutto considerando la bassa incidenza delle lauree in discipline Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) nel nostro Paese.
L’Italia, con il 15,5 per mille di individui di 20-29 anni laureati Stem, è al di sotto della media europea di 4,1 punti per mille. La distanza è particolarmente ampia se si raffronta a Paesi come la Francia (26,6 per mille), Regno Unito (25,2 per mille) e Spagna (21,5 per mille). Il differenziale è maggiore per gli uomini (-7,2 punti per mille rispetto all’Ue27), ma anche considerando le donne il gap con il resto d’Europa non si riduce.
A fronte di questa ancora scarsa attrattiva delle lauree nelle discipline Stem, che sono indicate come la vera chiave per ridurre il digital mismatch, ci sono i dati sulle tecnologie digitali.
Le Ict rappresentano una componente strategica per la competitività e per l’evoluzione dei sistemi produttivi verso una maggiore sostenibilità. L’Italia, che ha destinato a progetti di digitalizzazione circa il 27% dei 222 miliardi di risorse comprese nel proprio Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza, ha una situazione particolare.
Puntare sulle discipline Stem
Nel 2020, secondo l’Istat, le professioni Ict incidono per il 4,3% sull’occupazione totale nell’Unione Europea, ma solo per il 3,6% in Italia. Nelle imprese con più di 10 addetti oltre la metà del personale ormai usa quotidianamente computer connessi a Internet (il 56% nell’UE e il 53% in Italia).
Ma l’incidenza relativamente modesta degli occupati in professioni Ict, sempre secondo l’Istat, «segnala una carenza sistemica che riguarda la domanda di servizi specialistici amplificata dalla scarsità di risorse umane qualificate dal lato dell’offerta».
Nel 2020 meno del 40% degli occupati italiani in professioni legate all’Ict disponeva di una formazione universitaria, contro il 66% per l’insieme dell’Unione europea. In termini di addetti, il divario tra il nostro Paese e le principali economie europee appare ancora più grande: in dieci anni dal 2010 al 2020 il numero di specialisti è aumentato di circa il 77% in Francia, del 50% in Germania, del 35% in Spagna. Ma solo del 18% in Italia. Ragione in più per intervenire in questo ambito con politiche mirate, ma finalmente efficaci.