Ben alzato, Economist. C’è una nuova ortodossia nelle università, scrivi nella storia di copertina del tuo nuovo numero. Andrew Sullivan l’ha scritto sul New York Magazine nel febbraio del 2018, We all live on campus now. Persino un’italiana c’era arrivata prima di te: nella classifica dei libri del Corriere, nella primavera di quest’anno, trovi un libro sul disastro dell’istruzione suscettibile, d’una certa Guaia Soncini. Trovi anche alcune decine di suoi articoli sul tema già nel 2020, su Linkiesta, firmati non si sa perché con una vocale in meno.
Ci fa piacere che anche tu abbia capito che la sinistra prescrittiva è un problema più della destra cafona. Ci ho messo un po’ a convincere di questo concetto anche i ragazzi qui a Linkiesta, ma il direttore si è arreso, persino Cundari pur mugugnando ammette che no, non è normale dover dire che due più due può fare cinque durante le lezioni di matematica altrimenti gli allievi della tal etnia che fin lì hanno preso brutti voti in addizioni si frustrano, e insomma, caro Economist, mancavi solo tu. Vieni, ti verso da bere.
Ricopio qualche tua riga, quelle in cui dici che il liberalismo non è un pranzo di gala, e che spesso va contro ogni istinto di noialtri umani di tendenza suscettibile. «Richiede che tu difenda il diritto di parola del tuo avversario, anche quando sai che dirà cose sbagliate. Devi mettere in discussione le tue più profonde convinzioni. Non devi tutelare le imprese dai venti della distruzione creatrice. Le persone care devono far carriera solo per i loro meriti, anche quando il tuo istinto sarebbe di favorirle. E devi accettare la vittoria elettorale dei tuoi nemici, anche quando sai che porteranno alla rovina il paese». Quest’ultima a quegli altri sembrerà parli di Trump, ma noialtri sappiamo che parla degli ultimi trent’anni di politica italiana.
Primo flashback, 2020. Linkiesta pubblica alcuni articoli – a memoria direi di Cundari e Rodotà – che mettono in dubbio l’esistenza della cancel culture. L’idea è quella che ho sentito esprimere tante volte: ma c’è Trump, c’è Salvini, ti pare che il problema possa essere la censura di sinistra. Sto scrivendo “L’era della suscettibilità”, ed è in quel momento, in una conversazione a proposito di uno di quegli articoli, che metto a fuoco quella che diventerà una delle chiavi della mia interpretazione di questi tempi: non è una contrapposizione tra destra e sinistra.
Il punto è trovare uno spazio non beghino a sinistra. La questione è tra chi si dice di sinistra bruciando i libri di Harry Potter perché JK Rowling ha osato dire che il sesso biologico esiste, e chi sa che non sei di sinistra se non pensi che la Rowling possa dire il cazzo che le pare. E questo non perché abbia ragione (ce l’ha), ma perché la libertà di parola non serve a tutelare chi ci è affine o chi dice cose impeccabili: quelli si difendono da soli.
Il direttore della testata che state leggendo mi dice che secondo lui è una distinzione troppo sottile, è impossibile farla passare. Ma io sono cocciuta, e la scriverò tale e quale in quel libro che ci è arrivato prima dell’Economist: chi ha l’indubbia fortuna di parlare con me sa che utilizzo il metodo del maiale, e non butto via nessuna conversazione.
Secondo flashback, giugno 2021. Sono a Fano, a un festival letterario di quelli ai quali gli autori vanno per parlare dei loro libri e mangiare a scrocco. M’intervista Flavia Fratello, giornalista di La7 molto interessata a questi temi. A un certo punto, sul palco, dice: Maria Laura Rodotà sostiene che in Italia la cancel culture non esiste perché Calderoli può dare dell’orango alla Kyenge. Niente, questo su destra e sinistra è il dibattito della marmotta.
Ma a destra possono fare quello che vogliono, sospiro. Trump può dire che prende le donne per la passera e vincere comunque le elezioni. Le regole valgono a sinistra. È a sinistra che passi da scrittrice da Pulitzer a reproba se, in un dialogo dell’Ottocento che parla d’una cameriera, usi la parola «negra» (sì, ho visto lo sdegno su Facebook perché Jennifer Egan aveva osato non usare in una conversazione ambientata duecento anni fa termini quali «bipoc», black and indigenous people of color, che si orecchiavano spesso nelle piantagioni).
Non lo si ripete mai abbastanza, se a settembre 2021 anche all’Economist sembra una novità. D’altra parte Sullivan lo ripete da anni, che i suoi amici gli dicono che l’illiberalismo insegnato nelle università è roba da universitari. Poi passa.
Oppure no, come nota ora l’Economist; e come sei mesi fa, intervistandomi per il suo podcast, mi suggerì Daniele Rielli: gli studenti cui è stato insegnato che, se Shakespeare li turba, Shakespeare non dev’essere insegnato, poi diventano giornalisti, scrittori, editori. Diventano quei giovani fanatici dei quali i vecchi del New York Times sono terrorizzati, come ha raccontato Bari Weiss andandosene da quel giornale. Diventano quei giovani fanatici per i quali il quieto vivere è sacro e chi è sospetto d’avere comportamenti perturbanti va rimosso dal nostro orizzonte: quelli che minacciano di licenziarsi se la casa editrice pubblica l’autobiografia di Woody Allen.
Insieme al fatto che è una questione interna alla sinistra, la cosa più difficile da far capire è che la presunta sinistra non è sinistra illiberale: è destra. È gente che sogna Il racconto dell’ancella. Certo, se glielo chiedi ti diranno che l’incarnazione del Racconto dell’ancella è il Texas che vieta l’aborto, ma non è esatto: è molto più atwoodiano il mondo prescrittivo che sognano loro, in cui posso stabilire cosa tu possa dire e cosa pensare, e punirti se non ottemperi.
Sospetto sia colpa nostra. Di noi quarantacinquantenni che, oltre a essere i meno autorevoli della storia e quindi un disastro come genitori, siamo anche determinati a scusarci di non si sa bene quali fortune.
Tempo fa una quarantenne che lavora coi ventenni mi ha detto che per loro le questioni identitarie sono molto importanti perché hanno solo quelle: noi avevamo un futuro professionale ed economico, loro sanno che è tutto finito e che, invece di puntare sull’avere una carriera, gli conviene intrattenersi con l’identità di genere.
A 23 anni facevo l’autrice d’un programma televisivo con tre trentenni. Era per tutti e quattro la prima volta: avevamo fin lì fatto altro, e la maggior parte di noi sarebbe tornata a far altro. Venticinque anni dopo, uno di loro è tornato a fare il supplente, uno è tornato a tentare senza successo la fortuna nell’editoria, io sono io; il quarto, che fino a quel programma faceva il rappresentante d’elettrodomestici, è diventato il più pagato sceneggiatore di commedie d’Italia.
Uno su quattro ce la fa.
Mi sembra una media alla portata dei ventenni di questo secolo. Quelli che questa storia la racconterebbero per dire che ecco, lo vedi, ci avete rubato il futuro, i sogni, la possibilità di far carriera in tv.
È colpa nostra, che quando frignano non li prendiamo a coppini, che quando ci parlano delle loro istanze non gli diciamo che sono tutte stronzate (com’è stato detto a tutti i ventenni nella storia del mondo), che ci apriamo un Tik Tok per sentirli più vicini. I giovani hanno solo il dovere d’invecchiare, diceva quello. Aggiungerei che la sinistra ha il dovere di non comportarsi da destra.