Ci vorrebbe un numero di Vogue inglese sull’età, uno di quelli che i giornali patinati fanno sentendosi così di mentalità aperta da mettere una vecchia in copertina, e su quella copertina Robin DiAngelo.
Riassunto d’una delle ossessioni in corso, per chi fosse stato distratto.
Robin DiAngelo è una signora bianca ultrasessantenne che una decina d’anni fa inventa l’espressione “white fragility”, che descrive i bianchi non abituati a sopportare le fatiche d’essere giudicati per la loro razza. Due anni fa, White Fragility diventa un libro. È un buon successo, ma niente di paragonabile a quel che succede nell’America post-George Floyd, in cui i bianchi contriti, di sinistra e smaniosi di stare dalla parte giusta, non vedono l’ora di sentirsi dire che sono dei prevaricatori e spiegare che ora è il loro turno di tacere. Se non c’è un amico nero nei dintorni pronto a dirglielo, possono pagare e sentirselo dire da una scrittrice bianca.
White Fragility vende più d’un milione e mezzo di copie, DiAngelo tiene decine di conferenze al mese a quindicimila dollari a volta. Non sarò certo io a dire che il razzismo percepito rappresenta un bel giro d’affari.
Edward Enninful è il direttore, nero, dell’edizione inglese di Vogue. Tre giorni fa scrive su Instagram che è stato oggetto di profilazione razziale. Ovvero, arrivato agli uffici di Condé Nast (l’editore di Vogue), gli è stato detto da una guardia giurata, colpevole del grave crimine di non averlo riconosciuto e dell’ancor più grave crimine di averlo scambiato per un fattorino (le guardie giurate non hanno occhio per le giacche costose), di usare l’ascensore di servizio. Sotto al post in cui l’uomo più potente della moda inglese raccontava d’aver fatto licenziare una guardia giurata, ci sono i cuoricini di tutti i bianchi contriti che conosco nella moda italiana, e i commenti solidali (col direttore, non con la guardia giurata) della contrita ricchezza mondiale, da Ricky Martin a Ginevra Elkann, da Marc Jacobs a Naomi Campbell.
Giacché nessuno si astiene dal solidarizzare con la vittima, in quello che viene inquadrato come un episodio di razzismo, nessuno vuol essere espulso dal consesso delle persone perbene, nessuno cavilla sui dettagli della storia. Specialmente: nessuno che sia bianco.
Ancora non si vede all’orizzonte, ma arriverà, l’unico controriformatore possibile, un nero (o una nera) che dirà: forse stiamo esagerando. Speravo nel calciatore ivoriano insultato su Instagram da un dodicenne che poi è stato arrestato, speravo dicesse: Ma siete scemi che arrestate un dodicenne? E invece ha scritto che è importante che il razzismo non sia tollerato qualunque età tu abbia. Ma la rivoluzione non la fa chi la dovrebbe fare, figuriamoci se la fa un calciatore ventisettenne.
Qualche giorno fa il New York Times ha pubblicato un lungo articolo su Robin DiAngelo, chiedendosi se questi seminari di riprogrammazione della sensibilità razziale – che dalle cronache paiono una Scientology della razza, in cui devi contrirti pubblicamente, denunciare le tue malefatte anche se ti pare di non aver fatto niente di male, e capire che non esserti mai posto il problema della razza è razzismo – abbiano senso.
Ricopio un pezzettino: «DiAngelo è cresciuta in California, una delle tre figlie d’una ragazza madre che, verso la fine della sua breve vita, era impegnata a combattere il cancro, a stento aveva un lavoro, ed era solita essere violenta con le figlie. Gli assegni erano scoperti, la famiglia si muoveva tra un affitto diroccato e l’altro. Mi dice: “Una volta un’insegnante mi ha preso la mano, l’ha sollevata per fare di me davanti alla classe un esempio di sporcizia, e ha detto: Di’ a tua madre di lavarti”».
Non serve essersi laureati con una tesi su Marx per dire che questa cronaca dickensiana difficilmente racconta una persona cresciuta nel privilegio. Almeno, non serviva finché le fissazioni identitarie non hanno rimosso il concetto di classe sociale, e creato un mondo in cui l’uomo di potere nero è inquadrato come vittima del disgraziato bianco che fa uno degli ultimi lavori della catena alimentare (e che l’uomo nero può far licenziare in un minuto).
Quel paragrafo sull’infanzia disastrata di DiAngelo si conclude riportando che «nessuno dovrebbe equiparare le difficoltà d’un’inferiorità di classe con le ferite che vengono inflitte e gli ostacoli imposti dal razzismo».
Nella società postfattuale, che tu sia Magic Johnson o Barack Obama, comunque vivi una vita più difficile del disgraziato qualunque che non sa come pagare l’affitto, ma è bianco (forse c’è un’eccezione se il disgraziato è una disgraziata: non sono ancora uscite le tabelle ufficiali dei punteggi, quindi non so se per garantirsi la parte della vittima essere donna valga quanto essere nero, sarà mia premura informarvi). (Nota a margine: è difficile poi colpevolizzarlo, il disgraziato, quando corre a votare Trump).
Breve elenco di deliri sul tema raccolti negli ultimi giorni.
Una disgraziata (bianca) di San Francisco si è scusata: «Ho capito, sebbene troppo in ritardo, che la mia pettinatura è pericolosa». Come può, si chiederanno i miei piccoli lettori, una pettinatura essere pericolosa? Aveva le treccine rasta, è appropriazione culturale. Spero che 10, il film di Blake Edwards, sia stato eliminato da tutte le programmazioni televisive americane: vedere Bo Derek in treccine con le perline sarebbe uno shock culturale che altro che Via col vento.
Due donne, una bianca e una nera, hanno pubblicato un libro sulla loro amicizia interrazziale. Nell’estratto scelto dal New York Magazine, raccontano – senza apparente ironia né consapevolezza del sembrare una parodia – la tragicissima sera in cui la bianca aveva prestato casa a una terza amica che festeggiava il proprio compleanno, e dei mesi di rimprovero e contrizione che ne erano seguìti, giacché la nera era passata di lì e aveva notato che gli ospiti dell’amica (anzi: dell’amica dell’amica) erano tutti bianchi.
Il curatore (bianco) delle sezioni di pittura e scultura al Moma di San Francisco si è dimesso in seguito allo scandalo per la frase razzista e sessista pronunciata durante una riunione. La frase, commentando opere di artisti neri recentemente acquisite, era «continueremo ad acquisire opere di bianchi, e anche opere di maschi». Aveva poi aggiunto – riferendosi a un episodio di febbraio, la direttrice d’un giornale d’arte che gli aveva chiesto in un’intervista pubblica se non fosse il caso di smetterla di esporre opere di maschi bianchi, e lui aveva risposto che anche quella sarebbe stata una forma di profilazione razziale – «sarebbe discriminazione invertita». Immediata – giacché la cancel culture non esiste, è una proiezione fantasiosa di noialtri con troppo tempo libero – la petizione per il licenziamento a causa «delle sue convinzioni bianche tossiche suprematiste», e a quel punto il tapino s’è dimesso.
Nessuno ha licenziato per evidente scemenza la direttrice, giacché abitiamo un’epoca in cui essere sceme è meno imputabile che farsi le treccine rasta.