Bipopulismo metropolitanoA livello locale, dell’eccezione Draghi non c’è traccia. Salvo che a Milano e Roma

Se si escludono la candidatura di Calenda e la lista riformista a sostegno di Sala, nelle grandi città il “partito che non c’è” continua, appunto, a non esserci. Così, la campagna elettorale per le Amministrative è quasi del tutto imprigionata nello schema bipopulista. E, nel confronto tra sovranisti e demo-populisti, la concezione di “meglio“ appare appiattita su un (discutibile) “meno peggio”.

Le elezioni amministrative di ottobre interesseranno le principali città e vedranno andare al voto milioni di italiani. Sono un test rappresentativo di un elettorato altrettanto metropolitano, in termini socio-culturali, che per molte ragioni sarebbe errato considerare perfettamente rappresentativo di tendenze nazionali. Ma gli esiti del voto potrebbero comunque spingere, in una qualche misura, a determinarle o rafforzarle.

Sul piano dell’offerta elettorale gli scenari sono i più variegati, con l’ormai endemico proliferare di liste civiche, che nelle realtà più virtuose rappresentano rare espressioni di impegno e attivismo personale, ma che più spesso camuffano improbabili accrocchi politico-ideologici, utili per lo più a riciclare i più spudorati e acrobatici “turnisti” della politica locale, innestandoli di volta in volta in una rigenerata proposta politico-elettorale fatta di nuovi ingaggi, rigorosamente pescati nel fiume sacro della società civile tenendo conto della professione e del relativo bacino di utenza o più semplicemente dell’appartenenza di genere per garantire l’equilibrio tra le famose quote. Insomma, qualcosa che si ricollega per lo più alla politica in un senso apparente e deteriore: dell’abito e non del monaco.

In ogni caso, al di là della genesi costitutiva e della nominale ispirazione politico-ideologica, la grande parte delle offerte elettorali sono accumunate dal dichiarato obiettivo di fare “meglio”. Ma quanti tra aspiranti amministratori e potenziali elettori sanno e vogliono riconoscere cosa sia davvero “meglio” e soprattutto per chi? Per loro stessi? Per le categorie che vogliono rappresentare? Per lo sviluppo complessivo della società o per le generazioni future? Più si amplia, comunque, il raggio di incidenza delle ricadute che questo ipotetico “meglio” dovrebbe determinare, più il progetto politico-amministrativo e il candidato che lo rappresenta sembrano apprezzabili e meritevoli di consenso.

Ma ciò non sempre corrisponde al responso delle urne, soprattutto in alcune realtà territoriali dove i comportamenti elettorali subiscono l’influsso di fenomeni che fuorviano le scelte individuali e collettive dalla ricerca del “meglio” (bassi livelli d’istruzione e informazione, confusione tra associazionismo e comparaggio, scarsa educazione e senso civico, reti clientelari e familismo).

C’è qualcuno che vuole il meglio per le generazioni future e che lo calcola secondo criteri intertemporali, diversi da quello del “meglio un uovo oggi, che una gallina o un pollaio domani”? Può essere, ma è più probabile che la scarsa cognizione critica di cosa sia il meglio o, più gravemente, l’amara consapevolezza che il meglio non sia disponibile, né oggettivamente perseguibile porti a identificare il meglio in qualcosa di più direttamente o latamente affaristico e opportunistico. E questo vale per il “meglio”, come per il “meno peggio”.

Più volte mi è capitato di sentire, rispetto all’offerta politico-elettorale, la frase: «Sostengo (o sosteniamo), il candidato sindaco X perché tra i vari è il meno peggio». Un’espressione che inappellabilmente svilisce ogni speranza di miglioramento e che da una parte denuncia tutta l’inerzia di un elettorato disilluso e distratto, dall’altra la permanenza di una classe dirigente, o pseudo tale, poco lungimirante e troppo concentrata sulle imminenti elezioni.

È proprio di questa distrazione, di questa attitudine rinunciataria e di questo opportunismo local che si alimentano campagne elettorali prevalentemente incentrate suI candidati e sugli accordi di spartizione che si riescono a chiudere, vuote di contenuti e prive di politica, foriere di risultati dati per scontati e che alla fine nulla di “meglio” lasciano presagire.

Questa è la logica che ha dominato inesorabilmente la legislatura, fino all’avvento dell’era Draghi: prima il collante del governo giallo-verde, in nome di un indeterminato “meglio” dell’antipolitica rispetto alla politica, poi quello del governo giallo-rosso, in nome del “meglio” del social-populismo contro il sovran-populismo e del Conte di sinistra rispetto al Conte di destra. Conte, il meglio o il meno peggio di se stesso.

Direi che il “meglio”, oggettivamente, dovrebbe richiedere qualche sforzo in più di questa acrobazia trasformistica e di questo fregolismo politico, tanto da chi si candida a governare, quanto da coloro che scelgono da chi farsi governare. Il fatto è che della “eccezione Draghi” (nel suo significato politico, nella sua ispirazione ideale, nel suo rigore programmatico) non c’è quasi traccia in questa campagna elettorale, se non nella candidatura di Carlo Calenda a Roma e nella lista riformista milanese a sostegno di Sala, con ambizioni e risultati potenziali ben diversi da quelle di una civica di complemento.

Lo scontro è pressoché ovunque tra sovranisti e demo-populisti (in alcuni casi uniti al primo turno, in altri – a parte forse Milano – destinati a unirsi al secondo turno). E anche sul piano nazionale al momento la situazione è rappresentata da questo quadro. Manca quello che appunto definimmo il “partito che non c’è” (riformatore, liberal-democratico, europeista) e che non casualmente non ha liste in nessuna grande città italiana.

Tra un mese le amministrazioni locali che saranno rinnovate meriterebbero qualcosa di più dell’avvento o della conferma di un discutibile “meno peggio”. Ma, salvo eccezioni (quella meneghina probabile, quella capitolina possibile), difficilmente l’avranno e il risultato riproporrà la questione in modo ancora più urgente in vista delle prossime elezioni politiche.

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